Mese: Settembre 2025

Costo della manodopera, ribasso e verifica di anomalia

Tar Lazio, Roma, sez. II bis, 28 luglio 2025, n. 14863

Contratti di lavori, servizi e forniture – Procedure ad evidenza pubblica – Verifica di anomalia delle offerte – Costo di manodopera – Ribasso – Trattamenti salariali minimi

L’art. 41, comma 14, D. Lgs. 36/2003, impone alla stazione appaltante, con riferimento ai contratti di lavori, servizi e forniture, di sottoporre automaticamente – escludendo qualsivoglia valutazione di tipo discrezionale da parte dell’Amministrazione – a verifica di anomalia, ai sensi dell’art. 110 D. Lgs. 36/2023, l’offerta economica di un concorrente che abbia individuato, a titolo di costo della manodopera, un importo inferiore rispetto a quello indicato nell’importo a base di gara.

Del resto, i costi della manodopera, in quanto componenti effettivi dell’importo a base di gara, possono sì essere soggetti a ribasso, purché l’operatore economico dimostri che tale ribasso sia espressione di una più efficiente organizzazione aziendale e ferma l’inderogabilità dei trattamenti salariali minimi.

La valutazione delle offerte tecniche in una procedura di gara

Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa di Trento, sez. unica, 23 luglio 2025, n. 120

Procedure ad evidenza pubblica – Offerte tecniche – Valutazione – Discrezionalità – Cause di esclusione – Tassatività

La carenza che legittima l’esclusione dalla gara deve consistere nella carenza di un elemento dell’offerta ritenuto essenziale e, come tale suscettibile di dare luogo al cd. aliud pro alio, riferito – a presidio proprio del principio di stretta tassatività delle cause di esclusione – a quelle caratteristiche e qualità dell’oggetto dell’appalto che possano essere qualificate con assoluta certezza come caratteristiche minime, perché espressamente definite come tali o perché se ne fornisce una descrizione che ne rivela in modo certo ed evidente il carattere essenziale.

Nell’ambito di una procedura di gara ad evidenza pubblica, la valutazione delle offerte tecniche rappresenta l’espressione di un’ampia discrezionalità tecnica della stazione appaltante, con conseguente insindacabilità nel merito delle valutazioni e dei punteggi attribuiti dalla commissione, qualora non risultino inficiate da macroscopici errori di fatto, da illogicità o da irragionevolezza manifesta. Per sconfessare il giudizio della commissione giudicatrice non è sufficiente evidenziarne la mera non condivisibilità, dovendosi piuttosto dimostrare la palese inattendibilità e l’evidente insostenibilità del giudizio tecnico compiuto.

Annullamento del titolo edilizio e fiscalizzazione dell’abuso

Consiglio di Stato, sez. II, 19 settembre 2025, n. 7413

Abuso edilizio – Fiscalizzazione – Ipotesi applicative – Eccezioni – Impossibilità di riduzione in pristino – Natura

L’art. 38, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001 contempla tre diverse fattispecie di annullamento del titolo. La prima riguarda il caso in cui il titolo sia stato annullato perché affetto da un vizio di procedura emendabile. La seconda fattispecie è quella in cui il titolo sia stato annullato per un vizio di procedura insanabile e l’intervento è quindi abusivo, ma, essendo conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia, può essere mantenuto previa applicazione di una sanzione pecuniaria, il cui integrale versamento produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria. Il terzo caso è quello del permesso annullato per un vizio sostanziale, ossia perché l’intervento è contrastante con la disciplina applicabile, circostanza che preclude tanto la convalida, quanto la “fiscalizzazione” e impone il ripristino dello stato dei luoghi, a tutela dell’effettività della normativa urbanistica ed edilizia nonché dell’ordinato sviluppo del territorio nei termini disposti dalle Autorità cui è attribuita la funzione di governarlo.

Con riferimento alla seconda ipotesi, l’art. 38, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001 prevede, come eccezione alla regola della riduzione in pristino stato, la possibilità di fiscalizzazione dell’abuso, ovverosia l’applicazione di una sanzione pecuniaria in luogo della demolizione, soltanto «In caso di annullamento del permesso di costruire, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, (…) la restituzione in pristino». Quanto alla concreta individuazione di tale impossibilità di riduzione in pristino, essa non può che essere di ordine squisitamente tecnico costruttivo; diversamente opinando, l’art. 38 D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 si presterebbe a letture strumentali, consentendo sanatorie ‘ex officio’ di abusi attraverso lo strumento dell’annullamento in autotutela del titolo edilizio originario. La riduzione in pristino, pertanto, deve risultare impraticabile alla luce di una valutazione tecnica e non di una ponderazione dei vari interessi in gioco.

La natura dell’impossibilità, in quanto riferita ad aspetti di ordine tecnico-costruttivo, esclude che essa possa essere rinvenuta nella temporanea indisponibilità dell’ente alla demolizione di ufficio (per ragioni finanziarie o altro), tenuto altresì conto della acquisizione conseguente all’inottemperanza alla disposta demolizione. Né essa può essere ravvisata nella circostanza che, per effetto della demolizione, si provocherebbe danno o pregiudizio alla restante costruzione di proprietà dell’autore dell’illecito (preesistente o legittimamente assentita) o a quella di terzi. Difatti, la commissione dell’illecito non esclude, per principio generale, che l’autore si faccia carico di tutte le conseguenze della propria condotta, ivi compresi i pregiudizi arrecati alla sua stessa res (o a quella altrui) per effetto della doverosa attività di restituzione in pristino. Posto che risulta difficile ipotizzare una attività di demolizione che non comporti danni o pregiudizi, anche minimi, alla costruzione preesistente o legittimamente assentita (mentre nel caso di immobile totalmente abusivo è, in linea di massima, da escludere l’impossibilità di demolizione), rinvenire l’impossibilità di demolizione nel mero danno così arrecato finisce per costituire, in pratica, un sostanziale aggiramento della regola che vede nella riduzione in pristino la ordinaria sanzione dell’abuso edilizio, così finendo con il “legittimare” un abuso e, tramite la fiscalizzazione – costituire, anche in questo caso, una sorta di “condono a titolo oneroso”. L’impossibilità di restituzione in pristino deve, quindi, essere individuata nei soli (eventuali) casi in cui la demolizione risulti tecnicamente impossibile (e ciò – si ribadisce – è difficile che riguardi immobili totalmente abusivi), ovvero laddove la stessa esponga a pericolo, non altrimenti ovviabile, la pubblica o privata incolumità; ovvero ancora nei casi in cui la demolizione comporti danni ingenti a terzi ed il risarcimento di questi risulti eccessivamente oneroso.

Titolo edilizio e durata

Tar Calabria, Catanzaro, sez. II, 10 settembre 2025, n. 1452

Titolo edilizio – Termini di efficacia – Decadenza – Elusione – Proroga – Inizio dei lavori nei termini di legge – Onere probatorio

L’inizio dei lavori idoneo a evitare la decadenza del permesso di costruire deve intendersi riferito a concreti lavori edilizi che possono desumersi dagli indizi rilevati sul posto, consistenti nel concentramento di mezzi e di uomini, cioè nell’impianto del cantiere, nell’innalzamento di elementi portanti, nella elevazione di muri e nella esecuzione di scavi preordinati al gettito delle fondazioni del costruendo edificio, per evitare che il termine di decadenza del permesso possa essere eluso con ricorso ad interventi fittizi e simbolici.

Tale inizio deve essere sempre rapportato all’entità e alle dimensioni dell’intervento edilizio autorizzato, in quanto la stessa nozione di inizio lavori è dinamica, dovendosi parametrare all’opera definitiva; l’inizio dei lavori rilevante al fine di impedire la decadenza dal titolo edificatorio deve dunque essere comprovato dall’effettuazione di trasformazioni che superino la soglia delle mere attività preparatorie, dovendo essere di entità significativa non prescindendo dalla valutazione dell’opera da eseguire.

L’art. 15 comma 2 del d.P.R. n. 380 del 2001, che si riferisce ad una decadenza «di diritto», esclude qualsiasi sospensione automatica del termine di durata del permesso edilizio, e quindi a maggior ragione una sua automatica proroga. Richiede invece a tal fine che in ogni caso sia presentata un’istanza di proroga, sulla quale l’amministrazione deve pronunciarsi con un provvedimento espresso, nel quale accerti che i presupposti per accogliere l’istanza effettivamente sussistono.

Beni pubblici e concessioni

Tar Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 25 agosto 2025, n. 947

Concessioni di beni pubblici – Oggetto – Termini – Affidamento del concedente – Insussistenza – Sdemanializzazione – Effetti – Opere non amovibili – Destinazione

La concessione di beni pubblici può avere a oggetto esclusivamente beni del demanio ovvero beni del patrimonio indisponibile del concedente, e non anche beni del patrimonio disponibile. Per effetto della sdemanializzazione e del passaggio dell’intero ambito al patrimonio disponibile dello Stato viene meno l’oggetto della concessione e dunque anche la concessione medesima.

La proprietà superficiaria di beni realizzati sul demanio, infatti, da un lato, è strettamente funzionale al godimento del bene pubblico, e dunque segue necessariamente la sorte della concessione, e dall’altro lato, non può essere per sua natura perpetua, perché diversamente si tradurrebbe in una forma larvata di usucapione parziale di bene (quello demaniale che sopporta la proprietà superficiaria) per definizione inusucapibile.

La concessione, in quanto comporta la sottrazione del bene pubblico all’uso e al godimento da parte della collettività non può che avere durata limitata nel tempo. Nessun diritto, personale o reale, di godimento, anche parziale, può essere costituito in perpetuo a favore privati su beni (quelli del demanio o del patrimonio indisponibile), che, per loro natura, sono inalienabili, inusucapibili e indisponibili. È da tempo pacifico in giurisprudenza che il concessionario non può vantare alcun diritto di insistenza sul bene ottenuto in concessione.

Questo comporta che nessuna aspettativa tutelata può far valere il concessionario e nessuna recriminazione può avanzare per il solo fatto che la concessione ha naturalmente terminato di produrre effetti.

La determinazione della durata della concessione è rimessa all’apprezzamento discrezionale dell’Amministrazione concedente.

L’articolo 49, I comma, Cod. nav., prevede che: «Salvo che sia diversamente stabilito nell’atto di concessione, quando venga a cessare la concessione, le opere non amovibili, costruite sulla zona demaniale, restano acquisite allo Stato, senza alcun compenso o rimborso, salva la facoltà dell’autorità concedente di ordinarne la demolizione con la restituzione del bene demaniale nel pristino stato».

E sulla compatibilità comunitaria dell’articolo 49 Cod. nav. si è recentemente espressa la CGUE con la sentenza 11 luglio 2024 Causa C-598/22, affermando che «l’articolo 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che esso non osta ad una norma nazionale secondo la quale, alla scadenza di una concessione per l’occupazione del demanio pubblico e salva una diversa pattuizione nell’atto di concessione, il concessionario è tenuto a cedere, immediatamente, gratuitamente e senza indennizzo, le opere non amovibili da esso realizzate nell’area concessa, anche in caso di rinnovo della concessione».

Diritto di accesso e limiti

Tar Campania, Salerno, sez. III, 19 settembre 2025, n. 1523

Procedimento amministrativo – Accesso – Strumentalità – Presupposti – Oggetto – Interesse giuridicamente rilevante – Accesso difensivo – Valutazione in astratto

L’accesso va in ogni caso garantito qualora sia strumentale e funzionale a qualunque forma di tutela, sia giudiziale che stragiudiziale, anche prima ed indipendentemente dall’effettivo esercizio di un’azione giudiziale (c.d. accesso difensivo).

Quanto ai presupposti legittimanti l’esercizio del diritto di accesso ai documenti della pubblica amministrazione, è stata affermata la necessaria coesistenza di un interesse giuridicamente rilevante del richiedente, non necessariamente sostanziantesi in un interesse legittimo o in un diritto soggettivo, ma giuridicamente tutelato (non potendo identificarsi col generico ed indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento dell’attività amministrativa) ed un rapporto di strumentalità tra tale interesse e la documentazione di cui si chiede l’ostensione.

L’interesse all’accesso (difensivo) deve essere valutato in astratto, senza che possa essere operato, con riferimento alla fattispecie concreta, alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza o all’ammissibilità della domanda giudiziale che gli interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base dei documenti acquisiti mediante l’accesso stesso.

Il diritto di accesso ha ad oggetto documenti formati e quindi venuti ad esistenza che si trovino nella certa disponibilità dell’amministrazione, non potendo l’esercizio di tale diritto o l’ordine di esibizione impartito dal giudice, alla luce del principio generale per cui “ad impossibilia nemo tenetur” e per evidenti ragioni di buon senso, riguardare documenti non più esistenti o mai formati. La dimostrazione probatoria grava sulla parte che intenda far valere il diritto, la quale può assolvervi anche attraverso presunzioni ovvero in via indiziaria, ma non tramite mere supposizioni. Laddove, pertanto, l’esistenza del documento sia incerta o solo eventuale o ancora di là da venire, l’azione di accesso agli atti non può essere ritenuta ammissibile.

Inderogabilità della pubblicità dell’istanza di autorizzazione all’installazione di infrastrutture per impianti radioelettrici

Tar Liguria, Genova, sez. II, 12 settembre 2025, n. 994

Installazione di infrastrutture per impianti radioelettrici – Procedimento di autorizzazione – Istanza – Pubblicità – Necessarietà – Inderogabilità – Ratio

Nell’economia del procedimento di autorizzazione all’installazione delle infrastrutture per impianti radioelettrici, la pubblicizzazione dell’istanza (ai sensi dell’art. 44, comma 5 del D. Lgs. n. 259/2003, a mente del quale “Lo sportello locale competente provvede a pubblicizzare l’istanza, pur senza diffondere i dati caratteristici dell’impianto”) non costituisce un adempimento meramente formale, essendo funzionale all’attuazione di un principio di democraticità del processo decisionale, che non consente deroghe di sorta.

Impianti di telefonia e “cedevolezza” della pubblica utilità

Tar Sardegna, Cagliari, sez. I, 11 settembre 2025, n. 729

Pianificazione urbanistica – Installazione di impianti di telefonia e di stazioni radio base – Localizzazione – Discrezionalità – Limiti – Interessi rilevanti

In materia di telecomunicazioni, la giurisprudenza costante assimila gli impianti di telefonia e le stazioni radio base alle opere di urbanizzazione primaria che rivestono carattere di pubblica utilità, di talché l’opinione prevalente è che questi impianti possano essere ubicati in qualsiasi parte del territorio comunale, risultando compatibili con tutte le destinazioni urbanistiche, ma è del pari vero che, come anche chiarito da questo Tribunale Amministrativo Regionale, le predette infrastrutture non possono essere localizzate indiscriminatamente in ogni sito del territorio comunale, perché, al cospetto di rilevanti interessi di natura pubblica l’esigenza della realizzazione dell’opera di pubblica utilità può risultare cedevole, e che in altri termini, la natura di opere di urbanizzazione primaria delle stazioni radio base è compatibile, di per sé, con qualsiasi destinazione urbanistica, salvo il rispetto di disposizioni specifiche di atti generali aventi rilevanza autonoma rispetto alla disciplina urbanistica.

Pianificazione urbanistica e oneri motivazionali

Tar Piemonte, Torino, sez. II, 1 settembre 2025, n. 1295

Pianificazione urbanistica – Destinazione urbanistica – Discrezionalità della P.A. – Onere motivazionale attenuato – Eccezioni – Affidamento meritevole di tutela – Configurabilità

Per pacifica giurisprudenza, rientra nella piena discrezionalità pianificatoria del Comune la possibilità di imprimere ad una determinata zona un certo regime urbanistico-edilizio. Per tale ragione, la destinazione data dagli strumenti urbanistici alle singole aree del territorio non necessita di apposita motivazione, salvo che particolari situazioni, qui non ravvisabili, abbiano creato qualificate aspettative o affidamenti meritevoli di tutela in favore dei privati interessati. All’ampia discrezionalità di cui godono gli enti locali in sede di pianificazione urbanistica corrisponde un sindacato giurisdizionale di carattere estrinseco, limitato al riscontro di palesi elementi di illogicità e irrazionalità senza che lo scrutinio possa spingersi all’apprezzamento nel merito circa la condivisibilità delle scelte pubbliche. Per consolidata ricostruzione, infatti, anche l’onere di motivazione gravante sull’amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e “mirata”, salvo i casi in cui la variante, oltre ad incidere su zone territorialmente circoscritte, leda anche le già menzionate, legittime aspettative in capo ai privati. Tale legittimo affidamento alla conservazione delle qualità urbanistiche di un’area è tuttavia configurabile solo in presenza di convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio – rifiuto su una domanda di concessione o, ancora, nella modificazione in zona agricola della destinazione di un’area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.

Responsabilità della PA, configurabilità e oneri probatori

Tar Veneto, Venezia, sez. I, 1 settembre 2025, n. 1501

Procedimento amministrativo – Responsabilità della P.A. – Natura giuridica – Configurabilità – Colpevolezza – Onere probatorio

La responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi, sia da illegittimità provvedimentale sia da inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, ha natura di responsabilità da fatto illecito aquiliano e non già di responsabilità da inadempimento contrattuale. Pertanto è onere del danneggiato fornire compiuta prova di tutti i presupposti oggettivi e soggettivi dell’illecito (danno evento e danno conseguenza, nesso di causalità, illegittimità del provvedimento e colpa dell’amministrazione). In particolare quanto al presupposto soggettivo è stato precisato che la responsabilità dell’Amministrazione non può configurarsi in modo automatico dall’annullamento di un provvedimento illegittimo, essendo necessario accertare, oltre al nesso causale tra l’azione amministrativa e il danno lamentato, anche la sussistenza della colpevolezza o del dolo da parte dell’Amministrazione stessa.

L’illegittimità del provvedimento amministrativo, anche laddove acclarata con l’annullamento giurisdizionale, costituisce solo uno degli indici presuntivi della colpevolezza, da considerare unitamente ad altri, quali il grado di chiarezza della normativa applicabile, la semplicità degli elementi di fatto, il carattere più o meno vincolato (quindi, l’ambito più o meno ampio della discrezionalità) della statuizione amministrativa. Invece, l’elemento psicologico della colpa della P.A. va individuato nella violazione dei canoni di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, ossia in negligenze, omissioni d’attività o errori interpretativi di norme, ritenuti non scusabili in ragione dell’interesse protetto di colui che ha un contatto qualificato con la P.A. stessa. La responsabilità dell’Amministrazione deve quindi essere negata quando l’Amministrazione ha posto in essere un errore scusabile per la sussistenza di contrasti giudiziari, per l’incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto.