GIURISPRUDENZA

Recupero entrate e incentivi ai dipendenti comunali

Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per l’Emilia-Romagna, 16 dicembre 2024, n. 137/2024/PAR

Personale – Parere – Funzione consultiva – incentivi derivanti da recupero entrate tributarie IMU/TARI ex-art. 1, c. 1091, L. 145/2018

La Sezione regionale di controllo per l’Emilia-Romagna, con riferimento alla possibilità di erogare incentivi derivanti da recupero entrate tributarie IMU/TARI ex-art. 1, c. 1091, L. 145/2018 anche a dipendenti non assegnati al Servizio Tributi – servizio preposto ad accertare il tributo IMU/TARI – e per attività diverse dal recupero IMU/TARI, e pertanto anche a dipendenti assegnati ad altri Servizi che non sono in alcun modo coinvolti nelle attività di recupero IMU/TARI, a fronte di obiettivi diversi, ha affermato il seguente principio di diritto: “gli incentivi di cui trattasi potranno essere riconosciuti soltanto al personale impiegato nel raggiungimento degli obiettivi del settore entrate, anche con riferimento alle attività connesse alla partecipazione del Comune all’accertamento dei tributi erariali e dei contributi sociali non corrisposti, previa adozione dell’apposito regolamento previsto dall’art. 1, c. 1091, della L. n. 145/2018 e non al personale impiegato nel raggiungimento di obiettivi diversi rispetto a quelli previsti dalla norma in esame”.

Affidamento degli impianti sportivi e onere motivazionale

Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Lombardia, 17 dicembre 2024, n. 251/2024/PAR

Patrimonio disponibile e modalità di affidamento

Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per le Marche, 17 dicembre 2024, n. 161/2024/PAR

Personale – Parere – Funzione consultiva – Concessione diretta ad un ente del Terzo settore di un’area pubblica a fronte di congruo canone – Realizzazione e gestione di impianti a fonte rinnovabile

La Sezione regionale di controllo per le Marche, con riferimento alla possibilità di disporre da parte di un comune la concessione diretta ad una Comunità di Energia Rinnovabile (associazione non riconosciuta del Terzo Settore) partecipata dallo stesso, di uno spazio pubblico per la realizzazione e gestione da parte della medesima Comunità di un impianto a fonte rinnovabile, prevedendo anche il pagamento da parte della Comunità di un canone stimato congruo, ha affermato il seguente principio di diritto: “è possibile disporre liberamente dei beni patrimoniali disponibili, nei limiti delle buone regole di organizzazione amministrativa e dei principi di trasparenza contrattuale. Al riguardo, l’Amministrazione è libera di attribuire il bene anche al di fuori dell’istituto della locazione, nell’ipotesi in cui la concessione risulti più funzionale alla realizzazione di obiettivi pubblici, come nel caso di un’assegnazione in godimento di beni al gestore di un’opera o di un servizio, destinati alla collettività. In tale ultima ipotesi, al fine di stabilire la corretta procedura e normativa applicabile, occorrerà, di volta in volta, stabilire se la concessione abbia ad oggetto il bene, oppure il servizio”.

Potestà pianificatoria e discrezionalità

Consiglio di Stato, sez. IV, 13 dicembre 2024, n. 10047

Pianificazione urbanistica – Piano Urbanistico Comunale – Delibera comunale di variante – Discrezionalità – Interessi rilevanti

È legittima la delibera con la quale il Comune approva una variante al P.U.C., relativa ad un’area industriale, limitando l’insediamento solo alle attività agroalimentari, poiché con essa l’ente locale non ha inteso istituire un distretto agroalimentare o un distretto del cibo, quanto piuttosto creare le condizioni perché questo venga individuato dalle autorità competenti ovvero possa ulteriormente svilupparsi, a tal fine esercitando la propria potestà pianificatoria, il cui esercizio è connotato da ampia discrezionalità; la scelta, nel caso di specie, si fonda, da un lato, sulle criticità occupazionali e, dall’altro, sulla vocazione agricola del territorio in cui la zona in questione è inserita, orientando lo sviluppo economico del territorio verso determinate produzioni, escludendo le altre, la quale scelta rientra nella discrezionalità – e nella responsabilità – del pianificatore.

Risoluzione per inadempimento di una convenzione urbanistica

Consiglio di Stato, sez. IV, 5 dicembre 2024, n. 9758

Pianificazione urbanistica – Convenzioni urbanistiche – Risoluzione per inadempimento – Obblighi restitutori corrispettivi – Natura giuridica – Compensazione impropria – Rivalutazione monetaria

In relazione ad una convenzione urbanistica di cui sia stata disposta in via giudiziale la risoluzione per inadempimento, la restituzione di ciò che è stato versato in esecuzione di essa non integra un’obbligazione risarcitoria relativa al ristoro del danno emergente, bensì un’obbligazione restitutoria, poiché gli obblighi restitutori derivanti dalla sentenza costitutiva di risoluzione per inadempimento del contratto derivano dal venir meno, per effetto dell’anzidetta pronuncia costitutiva, della causa delle reciproche obbligazioni; di tal che, trova senz’altro applicazione il principio di retroattività degli effetti della sentenza di risoluzione, ai sensi dell’art. 1458 c.c.

In relazione ad una convenzione urbanistica di cui sia stata disposta in via giudiziale la risoluzione per inadempimento, allorché le prestazioni contrattuali sono irripetibili per le loro intrinseche caratteristiche, come avviene quando esse siano consistite nel godimento di un determinato bene per un certo periodo di tempo, opera la compensazione impropria tra obbligazioni restitutorie corrispettive, delle quali l’una ha ad oggetto un’obbligazione ripetibile in natura (somma di denaro o consegna della res) e l’altra corrisponde al godimento del bene medio tempore avuto dalla controparte ed è per tale ragione irripetibile, sicché, in tali ipotesi, si giustifica la riduzione della prima obbligazione per effetto dell’anzidetta compensazione impropria.

In relazione ad una convenzione urbanistica di cui sia stata disposta in via giudiziale la risoluzione per inadempimento, quanto alla domanda di restituzione delle somme versate, non avendo essa natura risarcitoria, non è dovuta la rivalutazione monetaria, trattandosi di debito di valuta e non di valore, mentre sono dovuti gli interessi nella misura legale, salva prova del maggior danno, ex art. 1224, 2 comma c.c.; tali interessi decorrono dalla data della domanda giudiziale e non dalla data del versamento e neppure dall’atto di costituzione in mora, poiché la sentenza di risoluzione per inadempimento è una pronuncia costitutiva e non meramente dichiarativa.

Stazioni radio-base e autorizzazione paesaggistica

Consiglio di Stato, sez. VI, 2 dicembre 2024, n. 9616

Pianificazione urbanistica – Opere di urbanizzazione primaria – Installazione di tralicci o antenne di notevoli dimensioni – Vincoli paesaggistici – Autorizzazione paesaggistica

La disposizione di cui all’art. 86, comma 3, del d.lgs. n. 259/2003, nell’assimilare le stazioni radio base ad opere di urbanizzazione primaria, afferma la compatibilità delle stesse a qualsiasi destinazione urbanistica ma senza che ciò riverberi i suoi effetti sui vincoli paesaggistici gravanti sull’area.

Per l’installazione di tralicci o antenne di notevoli dimensioni è richiesta l’autorizzazione paesaggistica.

Il silenzio-assenso in materia edilizia

Consiglio di Stato, sez. II, 13 dicembre 2024, n. 10076

Procedimento amministrativo – Silenzio assenso in materia edilizia – Specialità – Art. 20, c. 8, d.P.R. 380/2001 – Abuso edilizio – Convalida – Fiscalizzazione

Deve ribadirsi l’orientamento tradizionale per cui in materia edilizia l’istituto del silenzio assenso non è regolato direttamente dall’art. 20 della legge n. 241 del 7 agosto 1990, ma è soggetto a una disciplina speciale, che ne definisce ambito e condizioni di applicazione. D’altronde, lo stesso silenzio assenso regolato dall’art. 20 della l. n. 241 del 1990 non è un istituto di carattere generale destinato ad applicarsi in via residuale in mancanza di una diversa disciplina, sia perché incontra le esclusioni e preclusioni elencate nel comma 4, sia perché la regola è quella secondo cui le pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concludere il procedimento con un provvedimento espresso, a norma dell’art. 2 della l. n. 241 del 1990 e nel rispetto dei principi di legalità e trasparenza; tale è il caso dell’istanza ex art. 38 del d.P.R. n. 380 del 2001, che non disciplina le conseguenze della mancata risposta dell’amministrazione sull’eventuale istanza del privato, per cui non può formarsi il silenzio assenso su di essa, anche alla luce della natura in realtà officiosa del procedimento, come si desume dal tenore letterale e dalla funzione della disposizione.

L’art. 20, comma 8 del d.P.R. n. 380 del 6 giugno 2001, da un lato esige che il diniego, per poter inibire la formazione dell’assenso tacito, deve essere “motivato”, dall’altro esclude che l’istituto si applichi laddove l’immobile o l’area in cui questo si trova siano sottoposti a vincoli, nonché quando vi siano state richieste di integrazione documentale o istruttorie inevase. A conferma di ciò, si desume: i) dalla disciplina in materia di silenzio assenso sull’istanza di condono che esso si formi solo se ricorrono tutti i requisiti soggettivi e oggettivi per l’accoglimento della stessa (cfr. artt. 31 e ss. l. n. 47 del 28 febbraio 1985, art. 39, l. n. 724 del 23 dicembre 1994 e art. 32 d.l. n. 269 del 30 settembre 2003, convertito con modificazioni in l. n. 326 del 24 novembre 2003); ii) che sull’istanza di accertamento di conformità, l’art. 36, comma 3 del d.P.R. n. 380 del 2001 prevede il meccanismo del silenzio diniego. Di tal che, laddove il legislatore, in materia edilizia, non abbia espressamente qualificato la mancata tempestiva risposta dell’amministrazione come silenzio assenso, ovvero come silenzio diniego, essa configura un’ipotesi di silenzio inadempimento, rispetto alla quale il privato può tutelarsi con l’azione di cui agli artt. 31 e 117 c.p.a. per ottenere l’accertamento dell’obbligo di provvedere e, se ne ricorrono i presupposti, anche una pronuncia sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio.

L’art. 38 del d.P.R. n. 380 del 6 giugno 2001 contempla tre diverse fattispecie: (i) la prima riferibile a un titolo edilizio annullato per un vizio di procedura emendabile e che perciò è soggetto a convalida ordinaria; (ii) la seconda, nella quale il vizio di procedura accertato è insanabile, ma l’opera realizzata, pur abusiva, è conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia, la quale, perciò, può essere mantenuta previa applicazione di una sanzione pecuniaria, il cui integrale versamento produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria; (iii) la terza, nella quale il vizio per cui è stato annullato il titolo edilizio è di natura sostanziale, quindi l’intervento è contrastante con la disciplina applicabile, circostanza che preclude tanto la convalida, quanto la “fiscalizzazione” e impone il ripristino dello stato dei luoghi.

In sostanza, l’art. 38 del d.P.R. n. 380 del 2001 disciplina la convalida introducendo elementi di specialità rispetto all’art. 21-nonies, comma 2, della legge n. 241 del 7 agosto 1990, perché, da un lato, consente la convalida del provvedimento “annullato” – non già “annullabile” – mentre di regola la convalida è preclusa dalla formazione del giudicato, e, dall’altro, la limita ai vizi “di procedura” (escludendo quindi i vizi sostanziali) (nel caso di specie, è stato rilevato il contrasto tra la destinazione dell’immobile e la disciplina urbanistica a esso applicabile, che di per sé esclude la “fiscalizzazione”).

L’art. 38 del d.P.R. n. 380 del 2001 è norma di favore che consente che si producano, in conseguenza del pagamento di una sanzione pecuniaria, i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all’articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, pur in presenza di un bene (formalmente) abusivo, perché comunque il titolo avrebbe dovuto essere rilasciato, stante la sostanziale legittimità dell’opera alla disciplina urbanistica all’epoca vigente e a cui si correla l’affidamento del privato, con la conseguenza che non può assumere rilevanza sanante una disciplina urbanistica o edilizia sopravvenuta, non potendo il privato logicamente confidare in una modifica del quadro normativo che renda legittimo ciò che prima non lo era. Ciò discende altresì dall’esigenza di evitare la riproposizione della tesi della “sanatoria giurisprudenziale”, ossia appunto della sanabilità dell’immobile per “conformità sopravvenuta”, che è stata infine disattesa in mancanza di una base legale, né depone in senso contrario il decreto legge n. 69 del 29 maggio 2024, convertito con modificazioni in legge n. 105 del 24 luglio 2024, da un lato, perché non ancora vigente al momento dell’adozione del provvedimento impugnato, dall’altro, perché esso «non ha inteso superare il requisito della cosiddetta “doppia conformità”, ma ne ha circoscritto l’ambito di applicazione agli abusi edilizi di maggiore gravità.

Spesa pubblica e libertà di scelta della struttura sanitaria

Tar Lombardia, Milano, sez. V, 21 novembre 22024, n.3291

Servizi sanitari – Strutture socio-sanitarie – Discrezionalità del cittadino – Compartecipazione al costo delle prestazioni sociosanitarie e sociali – Capacità economica dell’assistito – Parametro di valutazione in uso agli Enti locali

Il cittadino può scegliere liberamente la struttura socio-sanitaria cui affidarsi: le amministrazioni preposte alla gestione e alla erogazione dei servizi sanitari e socio-sanitari non possono, con propri provvedimenti, né coartare la decisione dell’assistito, né subordinare la presa in carico all’indicazione di una particolare struttura. Quindi, il Comune non può imporre, per ragioni economiche, la struttura alla persona bisognosa.

Riguardo all’esigenza di individuare un ragionevole punto di equilibrio tra l’interesse al contenimento della spesa pubblica e il principio di libera scelta dell’assistito circa la struttura sanitaria o socio-sanitaria cui affidarsi, il legislatore ha previsto che l’intervento finanziario pubblico sia ammissibile solo con riferimento agli operatori accreditati che abbiano stipulato appositi contratti con le ATS competenti, i quali quindi – oltre a garantire elevati standard qualitativi – sono tenuti ad attenersi al sistema tariffario definito dalla Regione.

L’art. 2-sexies introdotto nel d.l. n. 42/2016 dalla legge di conversione n. 89 del 2016 ha espressamente escluso i trattamenti assistenziali, previdenziali e indennitari, comprese le carte di debito, a qualunque titolo percepiti da amministrazioni pubbliche in ragione della condizione di disabilità, laddove non rientranti nel reddito complessivo ai fini dell’IRPEF, dalla ridefinizione di “reddito disponibile” imposta dall’art. 5 del d.l. n. 201 del 2011 per la concessione di benefici assistenziali.

L’introduzione dell’ISEE quale parametro per la valutazione della condizione economica dei richiedenti benefici assistenziali è avvenuta, ad opera dell’art. 5 d.l. 201/2011 (seguito dal del d.p.c.m. 159/2013), in attuazione della competenza legislativa statale esclusiva di cui all’art. 117, co. 2, lett. m, Cost. in ordine alla «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». Pertanto, gli enti locali non possono discostarsi da questo parametro esclusivo o introdurne altri di propria iniziativa, non avendo alcuna autonomia amministrativa o normativa sul punto, a tal fine non potendo addurre neppure esigenze legate ai vincoli di bilancio.

Il potere di revoca

Consiglio di Stato, sez. V, 20 dicembre 2024, n. 10265

Procedimento amministrativo – Potere di revoca ex art. 21 quinquies L. 241/1990 – Ratio e presupposti – Discrezionalità – Istanza del privato

Il potere di revoca ex art. 21 quinquies l. n. 241 del 1990, si configura come lo strumento di autotutela decisoria preordinato alla rimozione, con efficacia ex nunc, di un provvedimento all’esito di una nuova valutazione dell’interesse pubblico alla sua conservazione. I presupposti del valido esercizio dello ius poenitendi sono definiti dall’art. 21 quinquies, cit., e consistono nella sopravvenienza di motivi di interesse pubblico, nel mutamento della situazione di fatto e in una rinnovata valutazione dell’interesse pubblico originario.

Il potere di revoca è connotato da un’ampia discrezionalità, dal momento che, a differenza del potere di annullamento di ufficio, che postula anche l’illegittimità dell’atto da rimuovere, quello di revoca esige solo una valutazione di opportunità, seppure ancorata alle condizioni legittimanti espresse dalla norma succitata, sicché il valido esercizio dello stesso resta, comunque, rimesso ad un apprezzamento ampiamente discrezionale dell’amministrazione procedente, rispetto al quale l’istanza del privato assume solo una valenza sollecitatoria.

L’essenza della revoca, quale tipico atto di secondo livello, è proprio la rimozione di un provvedimento anteriore valido, ma ritenuto inopportuno per sopravvenuti motivi di pubblico interesse o per mutamento della situazione di fatto, ma anche a causa di una rivalutazione dell’interesse pubblico originariamente considerato dall’amministrazione.

Immobili inagibili e IMU

Corte Suprema di Cassazione, Civile, Sez. Tributaria, 9 dicembre 2024, n. 31597

Enti locali – Tributi locali – IMU – Riduzione – Immobili inagibili – Buona fede

L’affermazione secondo cui la riduzione dell’IMU va riconosciuta, in base al principio di buona fede e di leale collaborazione tra le parti e anche in assenza di specifica dichiarazione, qualora lo stato di inagibilità sia noto al Comune, richiede la prova della conoscenza da parte dell’ente dello stato di inagibilità ed inutilizzabilità delle unità immobiliari oggetto dell’accertamento.

In tema di IMU e nell’ipotesi di immobile inagibile, l’imposta va ridotta, ai sensi dell’art. 13, comma 3, del d.l. n. 201 del 2011 (conv. con modif. dalla l.n. 214 del 2011), nella misura del 50 per cento anche in assenza di richiesta del contribuente quando lo stato di inagibilità è perfettamente noto al Comune, tenuto conto del principio di collaborazione e buona fede che deve improntare i rapporti tra ente impositore e contribuente di cui è espressione anche la regola secondo cui a quest’ultimo non può essere chiesta la prova di fatti già documentalmente noti al Comune.