GIURISPRUDENZA

L’attività edilizia “libera”

Tar Lazio, Latina, sez. II, 4 giugno 2025, n. 508

Titolo edilizio – Attività edilizia libera – Ambito applicativo – Pertinenze – Requisiti

Ai sensi dell’art. 6, comma 1, lett. e-ter) del d.P.R. n. 380/2001, “sono eseguiti senza alcun titolo abilitativo: […] e-ter) le opere di pavimentazione e di finitura di spazi esterni, anche per aree di sosta, che siano contenute entro l’indice di permeabilità, ove stabilito dallo strumento urbanistico comunale, ivi compresa la realizzazione di intercapedini interamente interrate e non accessibili, vasche di raccolta delle acque, locali tombati”.

Dal soprariportato testo traspare che le opere ivi indicate possono ritenersi effettivamente rientranti nel perimetro di applicazione della previsione normativa, laddove: i) siano contenute entro i limiti di permeabilità; ii) per le loro caratteristiche concrete siano del tutto inidonee a influire in modo rilevante sullo stato dei luoghi, e quindi non determinino una significativa trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio (cioè abbiano una portata limitata sia in termini assoluti sia in rapporto al contesto in cui si collocano).

Le pertinenze edilizie devono possedere le seguenti caratteristiche:

i) hanno un nesso oggettivo che non consenta altro che la destinazione della cosa ad un uso servente e funzionale all’edificio principale;

ii) sono sfornite di un autonomo valore di mercato;

iii) non comportano un “carico urbanistico proprio”, in quanto esauriscono la loro finalità nel rapporto funzionale con l’edificio principale.

Complessità istruttoria e discrezionalità tecnica

Tar Piemonte, Torino, sez. II, 26 maggio 2025, n. 872

Procedimento amministrativo – Questioni tecnico-scientifiche di particolare complessità – Discrezionalità tecnica – Inquinamento ambientale – Nesso di causalità – Criteri di accertamento – Principio del “chi inquina paga” – Presunzioni semplici – Attività pericolosa – Prova liberatoria – Obblighi di ripristino e bonifica – Intervento di messa in sicurezza – Responsabilità solidale

Nelle materie in cui è chiamata a risolvere questioni tecnico-scientifiche di particolare complessità (come nel caso dell’individuazione delle cause e delle relative responsabilità rispetto a fenomeni di inquinamento ambientale), l’autorità amministrativa dispone di una discrezionalità tecnica molto ampia, sindacabile in sede giurisdizionale solo nel caso di risultati abnormi o manifestamente illogici e contraddittori.

L’accertamento del nesso di causalità fra una determinata presunta causa di inquinamento ed i relativi effetti si basa sul criterio di matrice civilistica del c.d. “più probabile che non”, il quale richiede semplicemente che il nesso eziologico ipotizzato dall’autorità sia più probabile della sua negazione. La nozione di causa dell’inquinamento, in applicazione del principio “chi inquina paga” (che consiste nell’addossare ai soggetti responsabili i costi cui occorre far fronte per prevenire, ridurre o eliminare l’inquinamento prodotto), va peraltro intesa in termini di aumento del rischio, ovvero come contribuzione da parte del produttore al rischio del verificarsi dell’inquinamento. L’accertamento di un tale contributo causale può essere compiuto dall’amministrazione anche avvalendosi di presunzioni semplici ex art. 2727 c.c., quali, ad esempio, la vicinanza dell’impianto dell’operatore all’inquinamento accertato e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti impiegati da detto operatore nell’esercizio della sua attività.

La produzione su scala industriale di prodotti di tipo chimico costituisce un’attività pericolosa ai sensi dell’art. 2050 c.c. che rende il relativo autore responsabile della lesione, compromissione, degradazione o, comunque, messa in pericolo del bene ambiente che ne sia conseguita, salva la prova liberatoria di aver, già all’epoca, posto in essere ogni esigibile accorgimento idoneo a prevenire in radice tale contaminazione. La giurisprudenza civile ha, peraltro, evidenziato come tale prova liberatoria debba essere fornita con estremo rigore, tanto da far assumere alla presunzione di responsabilità stabilita dall’art. 2050 c.c. una connotazione sostanzialmente oggettiva. Infatti, al fine di esimersi da responsabilità, per l’esercente l’attività pericolosa non è sufficiente dimostrare di aver rispettato la normativa vigente nell’esercizio dell’attività o di non aver commesso alcuna negligenza, dovendo invece provare positivamente di aver fatto tutto il possibile per prevenire il danno, stante l’esigenza di assicurare il rispetto di standard oggettivi rigorosi e adeguati al rischio intrinseco dell’attività, in un’ottica di prevenzione e tutela della sicurezza collettiva. Egli risponde, dunque, in ragione dell’oggettiva mancanza delle misure protettive idonee, non essendogli sufficiente, per ottenere l’esonero, la prova di essere personalmente incolpevole; cosicché, quand’anche avesse adottato una qualche misura atta ad evitare il danno, ma non tutte quelle misure astrattamente disponibili a tal fine, l’unica prova liberatoria di cui potrà avvalersi è quella che gli consenta di escludere il nesso causale tra la propria condotta e il danno subito dal danneggiato, quindi, in sostanza, che riesca a provare il caso fortuito.

Tale ricostruzione in termini sostanzialmente oggettivi della presunzione di responsabilità stabilita dall’art. 2050 c.c. a carico dell’esercente una generica attività pericolosa trova peraltro una specifica declinazione proprio nella materia dell’inquinamento ambientale, posto che dal combinato disposto delle norme di cui agli articoli 242, 244, 298 bis, comma 1, lett. a), e 311, comma 2, primo periodo, del D. Lgs. n. 152/ 2006 si ricava che l’operatore che abbia causato un danno ambientale nello svolgimento delle attività pericolose di cui all’allegato 5 alla parte sesta del predetto Decreto può essere onerato degli obblighi di ripristino e bonifica sulla base del semplice nesso di causalità tra la sua attività e l’inquinamento riscontrato, senza che l’amministrazione sia tenuta a dimostrare l’elemento soggettivo del dolo o della colpa, essendo a carico dell’operatore fornire la rigorosa prova liberatoria consistente nella sussistenza di una delle cause di esonero della responsabilità espressamente previste dall’art. 308, commi 4 e 5, del D. Lgs. 152/2006, vale a dire, in sostanza, che l’inquinamento sia stato provocato da un terzo nonostante l’esistenza di misure astrattamente idonee, oppure sia stato causato dall’esecuzione di un ordine obbligatorio impartito dall’autorità, o ancora sia stato autorizzato in conformità alla disciplina legislativa e regolamentare vigente, o che non sia riconducibile alla sua attività secondo lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche vigenti al momento del suo svolgimento.

L’approvazione di un intervento di messa in sicurezza e bonifica si basa infatti sui dati e sugli studi presentati dal proponente e posti alla base del suo progetto, di cui viene previamente verificata l’astratta attendibilità e congruenza rispetto all’obiettivo posto, senza tuttavia che ciò basti ad esimere il proponente dalla responsabilità in ordine alla concreta e completa efficacia del progetto proposto e realizzato, i cui effetti vengono infatti verificati e monitorati e sono sempre suscettibili di implementazioni e miglioramenti in modo tale da raggiungere il fine del completo rispristino ambientale, che continua ad incombere sempre sul responsabile della contaminazione (quand’anche l’amministrazione dovesse aver erroneamente valutato in modo favorevole un progetto poi rivelatosi inadeguato o insufficiente).

La ripartizione delle quote di responsabilità tra i soggetti ritenuti solidalmente responsabili per un inquinamento ambientale non costituisce un elemento necessario del provvedimento adottato ai sensi dell’art. 244 del D. lgs. 152/2006.

La motivazione “plurale”

Tar Veneto, Venezia, sez. I, 4 giugno 2025, n. 883

Provvedimento amministrativo – Pluralità di motivi – Legittimità o illegittimità di un motivo – Effetti sul provvedimento

Quando un provvedimento amministrativo è fondato su una pluralità di autonomi motivi, la legittimità di uno solo di essi è sufficiente a sorreggerlo, mentre l’eventuale illegittimità di uno solo o più degli altri motivi non basta a determinarne l’illegittimità.

SCIA, autotutela e false rappresentazioni

Tar Toscana, Firenze, sez. III, 4 giugno 2025, n. 981

Procedimento amministrativo – SCIA – Autotutela – Differenze dal modello generale di cui all’art. 21 novies L. 241/1990 – Doverosità – Termini – Derogabilità – Falso in rappresentazione dei fatti o in dichiarazioni sostitutive

L’autotutela di cui al comma 4 dell’articolo 19 della legge n. 241/1990 si diversifica per così dire sul piano ontologico dal modello generale declinato dall’art. 21-novies, cui pure rinvia, innanzi tutto per il fatto che non incide su un precedente provvedimento amministrativo, connotandosi pertanto per conseguire ad un procedimento di primo e non di secondo grado, tanto da indurre la dottrina a rivederne finanche la qualificazione definitoria. Inoltre, mentre di regola il potere di autotutela è ampiamente discrezionale nell’apprezzamento dell’interesse pubblico che può imporne l’esercizio e pertanto non coercibile, al punto che la p.a. non ha neanche l’obbligo di rispondere a eventuali istanze con cui il privato ne solleciti l’esercizio, nel caso di cui all’art. 19, comma 4, della l. n. 241 del 1990, si ritiene che l’Amministrazione abbia l’obbligo di rispondere, sicché la discrezionalità risulta piuttosto relegata alla verifica in concreto della sussistenza o meno dei presupposti di cui all’articolo 21-novies. Depongono nel senso della doverosità, sia l’argomento letterale ‒ segnatamente, la differente formulazione dell’art. 21-nonies rispetto all’art. 19, comma 4, della legge n. 241 del 1990, il quale ultimo, a differenza del primo, dispone che l’amministrazione “adotta comunque” (e non già semplicemente “può adottare”) i provvedimenti repressivi e conformativi (sempre che ricorrano le ‘condizioni’ per l’autotutela) ‒, sia la lettura costituzionalmente orientata del disposto normativo.

L’art. 21 nonies, comma 2 bis, della legge n. 241/90 prevede che: “I provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall’amministrazione anche dopo la scadenza del termine di dodici mesi di cui al comma 1, fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445”. La predetta disposizione deve interpretarsi nei seguenti termini: “Il superamento del rigido limite temporale di dodici mesi per l’esercizio del potere di autotutela di cui all’art. 21-nonies deve ritenersi ammissibile, a prescindere da qualsivoglia accertamento penale di natura processuale, tutte le volte in cui il soggetto richiedente abbia rappresentato uno stato preesistente diverso da quello reale, atteso che, in questi casi, viene in rilievo una fattispecie non corrispondente alla realtà”. Tale contrasto, tra la fattispecie rappresentata e quella reale, può essere determinato da dichiarazioni false o mendaci la cui difformità, se frutto di una condotta di falsificazione penalmente rilevante (indipendentemente dal fatto che siano state all’uopo rese dichiarazioni sostitutive), dovrà scontare l’accertamento definitivo in sede penale, ovvero da una falsa rappresentazione dei fatti, che può essere rilevante al fine di superamento del termine fisso anche in assenza di un accertamento giudiziario della falsità, purché questa sia accertata inequivocabilmente dall’amministrazione con i propri mezzi.

L’articolo 21-nonies, in definitiva, contempla due categorie di provvedimenti – differenziabili in ragione dell’uso della disgiuntiva “o” – che consentono all’Amministrazione di esercitare il potere di annullamento d’ufficio oltre il termine di dodici (o diciotto, a seconda del regime ratione temporis applicabile) mesi dalla loro adozione, a seconda che siano, appunto, conseguenti a false rappresentazioni dei fatti o a dichiarazioni sostitutive false.

Accettazione della candidatura: elementi costitutivi

Tar Calabria, Catanzaro, sez. I, 2 maggio 2025, n. 787

Elezioni amministrative – Accettazione della candidatura – Procedura di autenticazione – Elementi costitutivi – Indicazione del luogo – Necessarietà – Soccorso istruttorio – Inammissibilità

Nella procedura di autenticazione della sottoscrizione dell’accettazione della candidatura, l’indicazione del luogo in cui si è provveduto alla autenticazione è elemento essenziale e costitutivo la cui omissione, già di per sé rilevante, assume una specifica incidenza sostanziale ove all’autenticazione provveda un consigliere comunale. L’omessa indicazione del luogo di autenticazione da parte di chi può esercitare il potere eccezionalmente attribuitogli dall’ordinamento esclusivamente all’interno di un determinato territorio impedisce, infatti, di verificare la legittimazione dell’agente e, quindi, la validità stessa della autenticazione.

Non è ammesso il soccorso istruttorio di cui all’articolo 33 del decreto del Presidente della Repubblica 16 maggio 1960, n. 570 in caso di omessa indicazione del luogo di autenticazione della sottoscrizione dell’accettazione di candidatura, trattandosi di un vizio sostanziale e non meramente formale che riguarda uno degli elementi costitutivi dell’autenticazione previsti dall’articolo 21, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445.

L’interpretazione delle clausole dei documenti di gara

Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa, sez. autonoma di Bolzano, 3 giugno 2025, n. 163

Contratti pubblici – Lex specialis – Interpretazione – Criteri – Principi di imparzialità e concorrenza

Per l’interpretazione delle clausole della lex specialis trovano applicazione le regole dettate dall’articolo 1362 e ss. del codice civile per l’interpretazione dei contratti, tra le quali assume carattere preminente quella collegata all’interpretazione letterale.

L’interpretazione dei bandi di gara, quali atti amministrativi generali, soggiace agli stessi canoni dettati per l’interpretazione degli atti negoziali (art. 1324 c.c.) e contrattuali (art. 1362 c.c.), assumendo tuttavia carattere preminente il canone dell’interpretazione letterale secondo cui l’ermeneutica deve avvenire innanzitutto in base al tenore letterale ossia attribuendo alle clausole il ‘senso letterale delle parole’ (art. 1362 c.c.), con esclusione, in caso di clausole assolutamente chiare, di ogni ulteriore procedimento interpretativo.

Il canone della interpretazione letterale si pone quale garanzia del rispetto dei principi di imparzialità dell’azione amministrativa e di tutela della concorrenza, in quanto proprio la sua rigorosa applicazione esclude che la stazione appaltante possa attribuire alle regole da essa stessa poste una portata diversa rispetto a quella che deriva obiettivamente dal tenore letterale su cui gli operatori del mercato, mediamente diligenti, hanno fatto affidamento ancor prima di partecipare alla gara. Infatti, poiché soltanto regole chiare consentono di conoscere il prevedibile esito della loro applicazione, gli operatori si determinano a partecipare alla competizione e a conformare di conseguenza l’offerta nella fiducia di ricevere proprio quel trattamento che discende dall’interpretazione letterale delle regole.

Prestazioni socio-assistenziali e compartecipazione ai costi

Tar Lombardia, Brescia, sez. I, 17 aprile 2025, n. 337

Prestazioni socio-assistenziali in favore dei disabili – Quota di compartecipazione – Criteri di calcolo – ISEE – Non rilevanza – Illegittimità

È illegittima la disposizione di un regolamento comunale che, nel prevedere una formula matematica per il calcolo della quota di compartecipazione dell’interessato al costo delle prestazioni socio-assistenziali erogategli, fissi per tale compartecipazione una percentuale minima, la quale prescinde totalmente dall’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE).

In materia di compartecipazione dei comuni alle spese per le prestazioni socio-assistenziali erogate in favore dei disabili ai sensi delle legge 8 novembre 2000, n. 328, è illegittima la determinazione comunale che stabilisce la quota di compartecipazione dell’interessato alla spesa per le prestazioni socio-sanitarie eseguite in suo favore, senza avere previamente accertato nel contraddittorio quali siano i trattamenti ai quali egli è concretamente sottoposto, e avere stabilito poi, sulla base di ciò, in quale delle previsioni normative rilevanti rientrino quei trattamenti, e quale sia conseguentemente la quota di spesa di cui deve farsi carico il servizio sanitario.

Consiglieri comunali e diritto d’accesso

Tar Campania, Salerno, sez. I, 26 marzo 2025, n. 565

Procedimento amministrativo – Diritto di accesso – Consiglieri comunali – Onere motivazionale – Insussistenza – Richieste generiche – Inammissibilità

La mancata previsione di modalità di accesso digitale al registro di protocollo informatico dell’ente locale, tramite il rilascio di apposite credenziali, non inficia la qualità del diritto dei consiglieri comunali, né rappresenta un reale impedimento per l’espletamento del munus pubblico; l’esercizio del diritto di accesso al registro di protocollo è assoggettato alla generale disciplina dettata per le altre tipologie di atti amministrativi.

I consiglieri comunali vantano un incondizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possono essere utili all’espletamento delle loro funzioni, con il duplice limite che esso deve comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali e non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche.

Sul consigliere comunale non può gravare alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di accesso atteso che, diversamente opinando, sarebbe introdotta una sorta di controllo dell’ente, attraverso i propri uffici, sull’esercizio del mandato del consigliere comunale.

Vincolo storico-artistico e oneri motivazionali

Consiglio di Stato, sez. IV, 19 maggio 2025, n. 4259

Beni culturali, paesaggistici e ambientali – Apposizione del vincolo – Relazione della Sopraintendenza – Precedenti difformi – Onere motivazionale rafforzato

È illegittimo il decreto di apposizione del vincolo storico artistico, ex art. 10 comma 3 lett. d),  d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, quando la relazione Soprintendenza posta a sua fondamento si rilevi contraddittoria e carente nella motivazione per genericità delle considerazioni espresse dall’amministrazione a sostegno della dichiarazione di interesse culturale “storico-relazionale”, dovendo la stessa recare riferimenti  a eventi storici specifici e alla rilevanza del bene quale testimonianza dell’identità e della storia delle «istituzioni pubbliche, collettive o religiose». Sussiste inoltre un onere di motivazione rafforzato allorquando le ragioni espresse a sostegno dell’apposizione del vincolo contrastino con altre valutazioni espresse in precedenza dalla Soprintendenza.

Ricostruzione di manufatti distrutti e oneri probatori

Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa di Trento, sez. unica, 19 maggio 2025, n. 88

Intervento edilizio – Ricostruzione di manufatti distrutti – Destinazione d’uso – Caratteri originari – Onere probatorio – Normativa statale e della Provincia autonoma di Trento

L’art. 107, comma 2, della legge provinciale n. 15 del 2015, dispone che “è consentita la ricostruzione filologica o tipologica dei manufatti distrutti, individuati catastalmente alla data di entrata in vigore della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per l’edificabilità dei suoli), o la cui esistenza a tale data possa essere documentalmente provata, anche mediante immagini fotografiche, e collocati in aree non destinate specificatamente all’insediamento, in presenza di elementi perimetrali tali da consentire l’identificazione della forma e sulla base di documenti storici o fotografie d’epoca; per questi manufatti è ammessa la destinazione d’uso originaria o il riutilizzo a fini abitativi non permanente”.

La disposizione esige non solo la dimostrazione della forma in pianta dell’edificio diruto ma anche delle altre dimensioni atte ad identificarne la consistenza originaria, le quali possono essere comprovate non solo mediante gli elementi perimetrali sopravvissuti ma anche sulla scorta di documenti storici o fotografie d’epoca; tale documentazione deve essere idonea a comprovare la configurazione originaria dello specifico edificio diruto in quanto la ricostruzione consentita dall’art. 107, comma 2, della l.p. n. 15 del 2015 costituisce deroga alla disciplina urbanistica applicabile all’area di proprietà della ricorrente, che è inedificabile e non ammette nuove costruzioni ma solo interventi di ricostruzione, in via derogatoria, di edifici preesistenti e pertanto presuppone la dimostrazione della originaria consistenza dell’edificio che si tratta di ricostruire, seppure in termini di attendibilità, ma con riferimento alla peculiarità dell’edificio diruto e non per mero richiamo a tipologie ritenute simili. In mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare, l’intervento di ricostruzione è qualificabile come nuova costruzione.

La normativa statale all’art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 380 del 2001 qualifica come interventi di ristrutturazione edilizia quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza.

L’accertamento della consistenza iniziale del manufatto demolito o crollato deve fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali, ad esempio, documentazione fotografica, aerofotogrammetrie e mappe catastali, che consentano di delineare, con un sufficiente grado di sicurezza, gli elementi essenziali dell’edificio diruto, da intendersi quali mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, e ciò in base allo ius receptum della giurisprudenza amministrativa, per cui sia il restauro ed il risanamento, sia la ristrutturazione presuppongono, in ciò consistendo il discrimen rispetto alle attività di nuova edificazione, che sia dimostrata non solo la preesistenza di un manufatto, ma anche la relativa consistenza, ossia il complessivo ingombro plani-volumetrico calcolato sulla base di altezza, sagoma, prospetto, estensione.

In ogni caso la prova diversa da quella fotografica – che rimane la più idonea – non può comportare una riduzione della soglia di attendibilità sull’originaria consistenza dell’immobile da ricostruire; e quindi la prova deve essere in ogni caso rigorosa e condurre ad un risultato plausibile.