Varie

Rifiuti abbandonati e responsabilità dei proprietari e concessionari delle aree

Tar Lazio, Roma, sez. II stralcio, 29 gennaio 2024, n. 1752

RSU – Sversamento sul suolo e abbandono – Responsabilità – Diritto personale di godimento sul bene pubblico – Condotte colpose – Dovere di bonifica

In materia ambientale e di gestione dei rifiuti, il requisito della colpa postulato dall’art. 192 del D.lgs. n. 152/2006 consiste, oltre che nella commissione di condotte positivamente orientate all’abbandono dei rifiuti, anche nell’omissione di quei doverosi controlli che potrebbero distogliere o impedire che terzi soggetti compiano le condotte sanzionate dalla norma, tra cui quelle di deposito incontrollato e di abbandono di rifiuti.

Può essere chiamato in causa al fine della bonifica dell’area invasa dai rifiuti non solo il proprietario, ma anche il concessionario e, dunque, il titolare di un diritto personale di godimento del suolo in cui sono stati versati rifiuti richiedenti la bonifica del suolo.

La responsabilità del concessionario di un bene pubblico, a titolo di colpa, discende dal non aver custodito adeguatamente il bene pubblico concesso in uso, in violazione dei doveri su di questi gravanti e dal non aver vigilato, oltre che sulle altre attività illecite svolte in loco, sullo sversamento di rifiuti sul suolo.

Centro abitato e limitazioni alla circolazione stradale

Consiglio di Stato, sez. V, 9 gennaio 2024, n. 282

Circolazione stradale – Libertà di locomozione e iniziativa economica – Limitazioni in centro abitato – Discrezionalità – Tutela di ambiente, paesaggio e salute

L’art. 16 Cost. non preclude l’adozione di misure che, per ragioni di pubblico interesse, influiscano sul movimento della popolazione; è pertanto costituzionalmente legittima una previsione come quella dell’art. 7 del Codice della strada, in quanto l’art. 16 Cost. consente limitazioni giustificate in funzione di altri interessi pubblici egualmente meritevoli di tutela. Conseguentemente, non sono utilmente proponibili, contro atti amministrativi attuativi della norma, doglianze di violazione degli artt. 16 e 41 Cost., quando non sia vietato tout court l’accesso e la circolazione all’intero territorio, ma solo a delimitate, seppur vaste, zone dell’abitato urbano particolarmente esposte alle conseguenze dannose del traffico.

La parziale limitazione della libertà di locomozione e di iniziativa economica è giustificata, laddove derivi dall’esigenza di tutela rafforzata di patrimoni culturali e ambientali, specie di rilievo mondiale o nazionale; la gravosità delle limitazioni si giustifica anche alla luce del valore primario e assoluto che la Costituzione riconosce all’ambiente, al paesaggio, alla salute.

È legittima la diversità del regime circolatorio in base al tipo, alla funzione e alla provenienza dei mezzi di trasporto, specie quando una nuova disciplina sia introdotta gradualmente e senza soluzione di continuità.

I provvedimenti limitativi della circolazione veicolare all’interno dei centri abitati sono espressione di scelte latamente discrezionali, che coprono un arco esteso di soluzioni possibili, incidenti su valori costituzionali spesso contrapposti, che vanno contemperati secondo criteri di ragionevolezza, la cui scelta è rimessa all’autorità competente.

L’uso delle strade, specie con mezzi di trasporto, può essere regolato sulla base di esigenze che, sebbene trascendano il campo della sicurezza e della sanità, attengano al buon regime della cosa pubblica, alla sua conservazione, alla disciplina che gli utenti debbono osservare e alle eventuali prestazioni che essi sono tenuti a compiere.

La tipologia dei limiti (divieti, diversità temporali o di utilizzazioni, subordinazione a certe condizioni) viene articolata dalla pubblica autorità tenendo conto dei vari elementi rilevanti: diversità dei mezzi impiegati, impatto ambientale, situazione topografica o dei servizi pubblici, conseguenze pregiudizievoli derivanti dall’uso indiscriminato del mezzo privato, trattandosi di disciplina funzionale alla pluralità degli interessi pubblici meritevoli di tutela e alle diverse esigenze, e sempre che queste rispondano a criteri di ragionevolezza il cui sindacato va compiuto dal giudice amministrativo in ossequio al principio di separazione dei poteri ed alla tassatività dei casi di giurisdizione di merito, ab externo, nei limiti della abnormità.

Unioni di comuni, estromissione e recesso

Consiglio di Stato, sez. V, 11 gennaio 2023, n. 376

Servizi pubblici – Gestione associativa – Convenzioni fra Enti locali – Natura giuridica – Istituzione – Modifiche – Unione fra Comuni – Estromissione e recesso

Le convenzioni previste al fine di svolgere in modo coordinato funzioni e servizi determinati, disciplinate in termini generali dall’art. 30 del T.u.e.l., ove opzionate quale forma di gestione associata dai Comuni obbligati, devono avere una durata almeno triennale, termine che comunque indica l’unità di tempo minimo trascorsa la quale si dovrebbe procedere a misurare l’effettività dei risparmi conseguiti, secondo modalità demandate ad apposito provvedimento attuativo (v. ancora l’art. art. 14, comma 31-bis, del d.l. n. 78 del 2010).

Rispetto alla gestione associativa in Unione, i Comuni in convenzione mantengono la titolarità giuridica delle funzioni, delle risorse e del personale e non si avvalgono degli organi amministrativi colà appositamente previsti. Essa, pertanto, costituisce un modello connotato da maggiore flessibilità, tanto da risultare la forma associativa largamente più diffusa tra i piccoli Comuni. Al contrario, la natura di Ente di secondo livello dell’Unione fa sì che le modalità organizzative della stessa siano rimesse agli atti adottati dai relativi organi, in particolare lo Statuto e i regolamenti, ferma restando, una volta che la stessa si sia costituita, l’applicabilità dei principi previsti per l’ordinamento dei Comuni, «con particolare riguardo allo status degli amministratori, all’ordinamento finanziario e contabile, al personale e all’organizzazione» (art. 32, comma 4, del d.lgs. n. 267 del 2000).

In fase di prima istituzione, lo Statuto deve essere approvato dai consigli dei Comuni partecipanti; le successive modifiche invece sono rimesse alla competenza di quello dell’Unione.

Le convenzioni ex art. 30 del d.lgs. n. 267 del 2000 sono una species del più ampio genus di accordi contemplati dall’art. 15 della l. n. 241 del 1990. A ciò consegue la necessità che la loro stipula soddisfi i requisiti di forma previsti da ridetta disposizione a carattere generale quale, a far data dal 30 giugno 2014, la sottoscrizione con firma digitale (art. 15, comma 2-bis, della l. n. 241 del 1990, introdotto dal d.l. n. 104 del 2013, successivamente modificato dal d.l. n. 145 del 2013). Essi, inoltre, sono sottoposti ai principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti, in quanto compatibili, ove non diversamente previsto.

Nell’ambito della disciplina dell’Unione, invece, solo i commi 2 e 5-bis dell’art. 32 del T.u.e.l. fanno riferimento all’utilizzo della convenzione: la prima ipotesi (comma 2), quale esercizio da parte dell’Unione, al pari di qualsiasi altra amministrazione, della sua capacità negoziale, estrinsecantesi nella possibilità di sottoscrivere accordi con altre Unioni o con singoli Comuni, aderenti o meno alla stessa; la seconda (comma 5-bis, introdotto dal d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221), per consentire ai Sindaci dei Comuni aderenti di delegare le funzioni di ufficiale dello stato civile e di anagrafe a personale idoneo dell’Unione o dei singoli Comuni associati.

L’Unione fra Comuni si concretizza in un Ente distinto dai Comuni che la compongono, a finalità normalmente settoriale, dotato di propri organi e competenze esclusive, nell’ambito dell’oggetto della gestione condivisa. Per contro, l’accordo gestionale cui si addiviene con una mera convenzione può risolversi in una delega, ma non spoglia mai il Comune che la conferisce della titolarità in astratto della relativa funzione.

Il potere di estromettere con decisione unilaterale uno dei Comuni che compongono un’Unione non è previsto dall’art. 32 del d.lgs. n. 267 del 2000. Il recesso del singolo partecipante può avvenire solo ad iniziativa dello stesso, ferma restando l’effettiva presa d’atto da parte dell’Unione.

Suolo pubblico e impedimento all’uso collettivo

Consiglio di Stato, sez. V, 3 gennaio 2024, n. 113

Occupazione permanente di suolo stradale – Impedimento all’uso collettivo – Canone di concessione non ricognitorio – Interramento condutture

L’art. 27 del codice della strada fonda l’imposizione del canone non ricognitorio su di un provvedimento di autorizzazione o concessione dell’uso singolare della risorsa pubblica; a livello sistematico, si desume dal codice che l’imposizione del canone presuppone la sottrazione, in tutto od in parte, all’uso pubblico della res, a fronte dell’utilizzazione eccezionale da parte del singolo.

Avendo il codice operato il richiamo alla sola “sede stradale” (vale a dire, alla superficie, e non anche al sottosuolo o al soprasuolo), deve intendersi che l’imposizione del canone non ricognitorio a fronte dell’uso singolare della risorsa stradale è legittima, solo se consegue a una limitazione o modulazione della possibilità del suo tipico utilizzo pubblico; ma non anche a fronte di tipologie e modalità di utilizzo (quali quelle che conseguono alla posa di cavi o tubi interrati) che non ne precludono ordinariamente la generale fruizione. Resta inteso che l’imposizione del canone non ricognitorio avrà un giusto titolo che la renderà legittima per il tempo durante il quale le lavorazioni di posa in opera e realizzazione dell’infrastruttura a rete impediscono la piena fruizione della sede stradale; ma non si rinviene una base normativa per ammettere una siffatta imposizione nel periodo successivo durante il quale la presenza in loco dell’infrastruttura di servizio a rete non impedisce né limita la pubblica fruizione della rete stradale.

Il canone non ricognitorio di cui all’art. 27, commi 7 e 8, del d.lgs. n. 285 del 1992 è una prestazione patrimoniale che si applica in correlazione con l’uso singolare della risorsa stradale, e dunque in funzione della limitazione od esclusione dell’ordinaria funzione generale. In linea di principio, dunque, alle occupazioni finalizzate all’interramento di condutture non si applica il canone ricognitorio, in quanto si tratta di una modalità di utilizzo della sede stradale che non preclude la generale fruizione della risorsa pubblica, limitandosi alla presenza nel sottosuolo dell’infrastruttura di servizio a rete.

Ferie e divieto di monetizzazione

Consiglio di Stato, sez. III, 2 novembre 2023, n. 9417

Lavoro pubblico – Ferie – Divieto di monetizzazione – Operatività – Rinuncia volontaria

Il diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite deve essere considerato un principio particolarmente importante del diritto sociale comunitario, al quale non di può derogare, sulla base della disposizione di cui all’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88, ai sensi del quale il periodo minimo di ferie annuali retribuite non può essere sostituito da un’indennità finanziaria, salvo in caso di fine del rapporto di lavoro, da interpretarsi nel senso che osta a disposizioni o pressi nazionali le quali prevedano che il diritto alle ferie annuali si estingua allo scadere del periodo di riferimento e/o di un periodo di riporto fissato dal diritto nazionale anche quando il lavoratore è stato in congedo per malattia.

Società in house, rapporti con il socio pubblico e convenienza economica dell’affidamento

Tar Lombardia, Milano, sez. I, 30 ottobre 2023, n. 2540

Società in house – Azione contro il socio – Ammissibilità – Controllo analogo – Configurabilità – Affidamento in house – Presupposti di legittimità – Motivazione sulla convenienza economica

Benché le società in house siano o debbano essere caratterizzate da un vincolo così stretto con l’ente di appartenenza che questo esercita un “controllo analogo” quello esercitato sui propri servizi, ciò non vale a dequotare il rapporto tra i due enti ad un rapporto interorganico e quindi non è inammissibile l’azione proposta dalla società in house contro l’ente socio.

Ai fini della configurabilità di un “controllo analogo”, non è necessaria la ricorrenza, in capo ad un socio pubblico, di un potere di controllo individuale del singolo socio affidante sulla società-organo assimilabile a quello, individuale, delineato dai primi due commi dell’art. 2359 c.c. o dall’art. 2383 c.c. con riferimento alla nomina degli amministratori; ciò che è imprescindibile è solo che il controllo della mano pubblica sull’ente affidatario sia effettivo, ancorché esercitato congiuntamente e, deliberando a maggioranza, dai singoli enti pubblici associati, anche se ottenuto tramite strumenti diversi.

In merito alla possibile valutazione della convenienza economica dell’affidamento in house, rispetto all’alternativa del ricorso al mercato, la giurisprudenza ha ritenuto sufficiente una comparazione tra dati, da svolgersi mettendo a confronto operatori privati operanti nel medesimo territorio attraverso la quale si riesca a dimostrare che il servizio fornito dalla società in house è il più economicamente conveniente ed in grado di garantire la migliore qualità ed efficienza; la verifica della convenienza può effettuarsi anche attraverso la dimostrazione dell’inadeguatezza degli operatori presenti sul mercato a garantire un livello adeguato di efficienza del servizio o comunque attraverso la prova, anche in caso di indisponibilità a reperire un operatore economico che renda il servizio alle stesse condizioni richieste dall’amministrazione affidante nel proprio territorio, di avere effettuato un’indagine di mercato rivolta a comparare la proposta della società in house con un benchmark di riferimento, risultante dalle condizioni praticate da altre società in house operanti nel territorio limitrofo.

La mancanza di una previa indagine di mercato per la verifica di congruità del contratto non inficia l’onere di motivazione rafforzato, con riferimento alle ragioni del mancato ricorso al mercato e alla convenienza dei costi del servizio. Questo perché l’onere di cui trattasi, imposto per evitare l’abuso dell’affidamento diretto, può ritenersi soddisfatto ove l’ente affidante abbia cura di indicare le plausibili e specifiche ragioni preferenziali a sostegno della convenienza globale dello strumento pubblico. Ne deriva un quadro di piena discrezionalità dell’amministrazione nello svolgimento di questo confronto, soprattutto se svolto tra società che sono controllate dal Comune stesso ed hanno con esso una relazione di controllo così stretto da sfiorare la relazione interorganica.

Noleggio di monopattini elettrici e Codice dei contratti pubblici

Consiglio di Stato, sez. V, 3 novembre 2023, n. 9541

Servizio di noleggio di monopattini elettrici – Natura – Attività imprenditoriale – Applicabilità Codice dei contratti pubblici – Limiti al numero operatori

In mancanza di assunzione del servizio da parte dell’amministrazione, presupposto anche dell’eventuale affidamento a terzi, il servizio di noleggio di monopattini elettrici non costituisce servizio pubblico, rientrando, pertanto, tra le attività imprenditoriali svolte da privati tendenzialmente liberalizzate in ossequio alla Direttiva 2006/123/CE sui servizi liberalizzati nel mercato europeo. In questa prospettiva, in quanto servizio rivolto al pubblico indistinto degli utenti, può trovare applicazione l’art. 9, Dir. 2006/123/CE, in base al quale queste attività sono soggette alla previa autorizzazione qualora lo richiedano ragioni imperative d’interesse generale, che possono anche essere rappresentate dalla tutela della sicurezza della circolazione stradale e dalla tutela degli stessi utenti che noleggiano i monopattini elettrici. La conseguenza rilevante è che la procedura mediante la quale il Comune intenda limitare – per i fini di interesse generale cui sopra si è accennato – il numero degli operatori privati abilitati a svolgere il servizio non rientra nell’ambito di applicazione del Codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. n. 50 del 2016, non essendo qualificabile né come affidamento di un appalto di servizi, né come affidamento di una concessione di servizio pubblico.

Concorsi e presentazione tardiva dei titoli

Consiglio di Stato, sez. V, 11 ottobre 2023, n. 8864

Procedure concorsuali – Graduatoria definitiva – Presentazione titoli dopo la conclusione delle prove concorsuali

In tema di procedure concorsuali per l’assunzione di pubblici dipendenti, l’amministrazione non può valutare titoli che, seppure sussistenti, non siano stati dichiarati nella domanda di partecipazione ad un pubblico concorso (Consiglio di Stato, Sez. IV, 23 dicembre 2019, n. 6935; Id., 19 febbraio 2019, n. 1148; Sez. III, 4 gennaio 2019, n. 96).

La soluzione si impone non solo sulla base del tenore letterale dell’art. 16, comma 1, del d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487 (secondo cui l’amministrazione procedente valuta i titoli preferenziali o i titoli di riserva nella nomina quando questi siano stati «già indicati nella domanda» di ammissione al concorso), ma anche per il convergere di ulteriori considerazioni; è stato sottolineato, infatti, che l’indicazione dei titoli in un momento successivo alla presentazione della domanda, e quindi quando il termine di presentazione sia scaduto, implicherebbe non tanto una regolarizzazione quanto un’integrazione della domanda di partecipazione, non consentita in materia di procedure concorsuali in ragione della perentorietà dei termini e del necessario rispetto del principio della par condicio dei candidati.

Specialità “siciliana” in materia di cessazione della carica di Sindaco

Tar Sicilia, Catania, sez. III, 10 ottobre 2023, n. 2966

Regione Siciliana – L.R. 35/1997 – Cessazione carica di Sindaco e mancato scioglimento del Consiglio comunale – Legittimità  

L’art. 11 della L.R. 35/1997 prevede in Sicilia una regola – diversa rispetto a quella valevole nel resto del Paese – secondo la quale “La cessazione dalla carica di sindaco per decadenza, dimissioni, rimozione, morte o impedimento permanente comporta la cessazione dalla carica della rispettiva giunta, ma non del rispettivo consiglio, che rimane in carica fino a nuove elezioni da effettuare nel primo turno elettorale utile.”

L’architettura istituzionale disegnata nel Testo unico degli enti locali prevede (agli artt. 37 e 46) che il Consiglio comunale sia formato dai consiglieri comunali e dal Sindaco, che ne è membro di diritto. Diversamente, in Sicilia, il Sindaco non fa parte del Consiglio comunale, e ciò per scelta del legislatore regionale adottata in applicazione dello Statuto autonomistico approvato con R.D.L. n. 455/1946. Tale diversità di struttura fra gli enti locali siciliani e quelli aventi sede nel resto del territorio giustifica l’esistenza della disposizione di legge oggetto di censura e, cioè, l’art. 11 della L.R. 35/1997. In altri termini, la deroga rispetto al principio simul stabunt, simul cadent vigente in ambito nazionale trova giustificazione nel fatto che il Sindaco non è componente del Consiglio comunale, e che di conseguenza le sue dimissioni non determinano automaticamente la decadenza dell’intera assemblea cittadina.

Lavoro pubblico e danno da mancata assunzione

Consiglio di Stato, sez. V, 3 ottobre 2023, n. 8633

Enti locali – Lavoro pubblico – Incarico ragioniere comunale – Mancata assunzione – Danno

In caso di mancata assunzione, non può essere accordata al danneggiato l’intera somma dei compensi spettanti nel periodo di mancata assunzione. Ciò si tradurrebbe infatti in un vantaggio eccessivo per il danneggiato che, nel frattempo, avrebbe potuto e dovuto concentrare i propri sforzi verso ulteriori occasioni lavorative.

In generale, deve ricordarsi che il danno per mancata o tardiva assunzione, derivante da una fattispecie di responsabilità extracontrattuale, non può necessariamente ed automaticamente comportare una vera e propria “restitutio in integrum” (che può rilevare soltanto sotto il profilo della responsabilità contrattuale), occorrendo invece, caso per caso, individuare l’entità dei pregiudizi di tipo patrimoniale e non patrimoniale che trovino causa nella condotta illecita del datore (mancato) di lavoro alla stregua dell’art. 1223, cod. civ.