Harald Bonura

Uso pubblico di strada privata

Tar Marche, Ancona, sez. I, 16 novembre 2024, n. 891

Circolazione stradale – Uso pubblico di una strada privata – Intervento in autotutela – Oneri istruttori e motivazionali – Garanzie partecipative per il privato – Principio del minimo mezzo

Il Comune, ai sensi degli artt. 823 e 825 c.c., ben può agire in autotutela per ripristinare l’uso pubblico di una strada o comunque di una proprietà privata, sempre che riesca a comprovare che la servitù di uso pubblico esistesse effettivamente, e fermo restando che il proprietario può agire in tutte le sedi giudiziarie se ritiene invece che l’uso pubblico non vi sia mai stato.

Analoga facoltà è concessa ai Comuni dall’art. 378, ultimo comma, della L. n. 2248/1865.

Ma, del resto, se così non fosse, qualunque privato potrebbe inibire l’uso pubblico di una strada semplicemente affermando di esserne proprietario (o negando l’esistenza della servitù di uso pubblico), e ciò fino a quando il giudice civile non abbia deciso la controversia fra lo stesso privato e il Comune. Le conseguenze pratiche di tale modus operandi sarebbero ovviamente disastrose per la collettività.

Naturalmente, venendo in rilievo l’esercizio di un potere autoritativo, l’adozione del provvedimento deve essere preceduta da adeguata istruttoria e deve prevedere, salvo casi di urgenza qualificata, la partecipazione del privato destinatario dell’atto finale; il provvedimento, poi, deve essere adeguatamente motivato e, laddove possibile, l’amministrazione deve rispettare il principio del minimo mezzo.

Dall’istruttoria deve ovviamente risultare che il bene privato è soggetto, in maniera non episodica o occasionale, ad uso pubblico, ossia che lo stesso sia utilizzato da una collettività indifferenziata. Questo requisito, a sua volta, è legato anche all’ubicazione del bene privato nel territorio comunale, essendo evidentemente più difficile per il Comune sostenere l’uso pubblico di una strada vicinale o interpoderale situata in aperta campagna rispetto ad una strada di proprietà privata ricadente in una zona densamente urbanizzata.

La revoca di un assessore comunale

Tar Sicilia, Palermo, sez. I, 18 novembre 2024, n. 3145

Organi comunali – Competenze – Procedimento di revoca di un assessore – Discrezionalità – Presupposti – Onere motivazionale – Comunicazione di avvio del procedimento – Omissione – Legittimità

La valutazione degli interessi coinvolti nel procedimento di revoca di un assessore è rimessa in via esclusiva al titolare politico dell’amministrazione, connotandosi come scelta ampiamente discrezionale, ferma peraltro la valutazione dell’organo consiliare, cui deve esserne data comunicazione ai sensi dell’art. 46, comma 4, del t.u.e.l. (e che potrebbe eventualmente opporsi con il rimedio della mozione di sfiducia motivata ai sensi dell’art. 52, comma 2, dello stesso corpus legislativo).

La revoca non presuppone la contestazione di addebiti (riguardando tale onere la bene differente materia disciplinare e, più in generale, sanzionatoria), ma soltanto un’adeguata motivazione, volta ad escludere il rischio dell’esercizio arbitrario (id est, non volto alla cura degli interessi della comunità locale) del potere.

Le esigenze di corretto funzionamento dell’amministrazione, ove adeguatamente motivate, potrebbero di per sé portare alla revoca dell’assessore.

La revoca dell’incarico di assessore comunale è esente dalla previa comunicazione dell’avvio del procedimento in considerazione del fatto che, in un contesto normativo nel quale la valutazione degli interessi coinvolti è rimessa in modo esclusivo al Sindaco, cui compete in via autonoma la scelta e la responsabilità della compagine di cui avvalersi per l’Amministrazione del Comune nell’interesse della comunità locale, con sottoposizione del merito del relativo operato unicamente alla valutazione del consiglio comunale, non c’è spazio logico, prima ancora che normativo per concepire l’esistenza dell’istituto partecipativo di cui all’art. 7 L. 241/1990.

Inoltre, poiché il procedimento in esame è semplificato al massimo per consentire un’immediata soluzione della crisi intervenuta nell’ambito del governo locale, l’interposizione della comunicazione dell’avvio del procedimento osterebbe a tale finalità e, dunque, può legittimamente essere omessa.

Sicurezza dei centri urbani e poteri sanzionatori sindacali

Consiglio di Stato, sez. VI, 2 dicembre 2024, n. 9615

Sicurezza del centro urbano – Coordinamento organi statali-Enti locali – Pubblici esercizi – Quiete urbana – Potere sanzionatorio del sindaco – Presupposti – Delegabilità – Principi di proporzionalità e adeguatezza della sanzione

Nella cornice normativa di nuovo conio tracciata in materia di sicurezza integrata dal d. l. 20 febbraio 2017, n. 14 (convertito dalla l. 18 aprile 2017, n. 48), l’art. 47 l. p. 58/1988 concorre, unitamente all’omologo istituto statale di cui all’art. 100 del T.U.L.P.S., “alla promozione e all’attuazione di un sistema unitario e integrato di sicurezza per il benessere delle comunità territoriali”.

In vista di tutelare la sicurezza sul territorio – più precisamente del centro urbano –, cui obbedisce la recente normativa di settore, si riproduce un modello di coordinamento/intesa degli organi dello Stato con l’ente locale comunale.

Inoltre, la norma provinciale richiamata è parte della disciplina complessiva dei pubblici esercizi della Provincia di Bolzano, volta a garantire la quiete pubblica all’interno dei locali, con l’onere di allontanare le persone che compromettono il normale esercizio dell’attività di somministrazione, e di richiedere, ove necessario, anche l’intervento degli organi di polizia.

Il bene giuridico tutelato dalla norma provinciale – riferito all’ordine e alla morale genericamente intesa – è eterogeneo rispetto a quello salvaguardato dal potere di prevenzione dei reati di cui all’art. 100 del Regio decreto 16 giugno 1931, n. 773; coerentemente il potere sanzionatorio esercitato dal sindaco ha ad oggetto comportamenti lesivi della quiete pubblica, non omologabile concettualmente, ancor prima che giuridicamente, alla sicurezza e all’ordine pubblico nell’accezione tecnica che li connota.

La norma (cfr. art. 47, comma 3, l.p. cit.) testualmente prevede che “…il sindaco può sospendere la licenza di esercizio fino a un massimo di tre mesi, oppure anticipare, in casi meno gravi o di reiterato o indebito disturbo del vicinato a causa dell’attività dell’esercizio stesso, l’orario di chiusura. Qualora i fatti che hanno determinato la sospensione si ripetano, può revocare la licenza di esercizio”.

Il sindaco, quindi, è titolare ope legis del potere di cui si discute, il quale può essere esercitato dall’assessore, ove legittimamente delegato.

Quanto all’adozione del provvedimento di sospensione, va precisato che non sono necessariamente richiesti tumulti o gravi disordini, essendo sufficiente che il pubblico esercizio sia abituale ritrovo di persone pregiudicate o pericolose o costituisca, comunque, un pericolo per l’ordine, la moralità o la sicurezza pubblica.

La gradazione della sanzione deve tenere conto dei fatti accertati, corrispondenti ai comportamenti ed alle situazioni contrarie alla quiete pubblica, nel rispetto dei principi ordinamentali di proporzionalità ed adeguatezza.

Ristrutturazione di ruderi e titolo edilizio

Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa di Trento, sez. unica, 12 novembre 2024, n. 166

Titolo edilizio – Ristrutturazione e ricostruzione di ruderi – Caratteristiche essenziali dell’edificio preesistente – Immobili realizzati in data anteriore al 1967 – Documentazione a comprova della consistenza della precedente costruzione – Contenuti

Con riferimento all’art. 3, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001, a partire dall’art. 30, primo comma, del d.l. n. 69 del 2013 convertito con legge n. 98 del 2013, la categoria della ristrutturazione è estesa anche “al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza…..” e dunque è superato il rigore precedentemente espresso quanto all’ammissibilità della ricostruzione di ruderi solo in caso di espressa previsione, negli strumenti urbanistici, della categoria di intervento corrispondente alla nuova costruzione; ciò purché l’edificio preesistente abbia le stesse dimensioni di quello crollato.

Le caratteristiche essenziali dell’edificio preesistente devono essere determinabili (fra cui volumetria, altezza e struttura complessiva), con la conseguenza che anche la mancata dimostrazione di uno solo di questi elementi determina l’insussistenza del requisito previsto dalla norma.

La preesistente consistenza non può essere rimessa ad apprezzamenti meramente soggettivi o al risultato di stime o calcoli effettuati su dati parziali, ma deve invece basarsi su dati certi, completi ed obiettivamente apprezzabili.

Quando si tratta di immobili realizzati in data anteriore all’anno 1967, allorquando la realizzazione di nuove costruzioni non presupponeva il rilascio di un titolo edilizio, per la dimostrazione delle caratteristiche essenziali dell’edificio, l’amministrazione non (può) pretendere la produzione di progetti aventi data certa che dimostrino, con assoluta precisione, tutte le caratteristiche dimensionali dell’edificio crollato, posto che questa pretesa renderebbe di fatto inapplicabile la norma di cui all’art. 3, primo comma, lett. d), del d.P.R n. 380 del 2001 per gli immobili edificati prima dell’anno 1967. Per questi immobili, occorre quindi ammettere la possibilità di fornire in modo diverso la dimostrazione della preesistente consistenza, producendo prove che inevitabilmente non possiedono quel grado di precisione che caratterizza la documentazione progettuale.

La documentazione prodotta a comprova della consistenza del precedente edificio da ricostruire deve essere idonea a dimostrare, quantomeno secondo un criterio di attendibilità, gli elementi essenziali dell’immobile diruto.

Obbligo della PA di provvedere

Tar Campania, Napoli, sez. V, 2 dicembre 2024, n. 6732

Procedimento amministrativo – Obbligo di provvedere in capo agli Enti pubblici – Obbligo di buona fede – Obbligo della P.A. di provvedere a fronte dell’istanza del privato – Art. 2 L. n. 241/1990

Nel tempo, il giudice amministrativo ha progressivamente ampliato i presupposti per la configurabilità dell’obbligo di provvedere a carico degli enti pubblici: la maggiore apertura si ricollega ad una nuova consapevolezza circa lo statuto giuridico della relazione procedimentale in quanto soggetta non solo alle c.d. regole di validità degli atti ma anche a quelle di comportamento, tra cui campeggia l’obbligo di buona fede, da tempo ritenuto cogente anche nell’ambito del diritto pubblico, quale regola generale non solo di interpretazione ma avente anche una concorrente funzione correttiva ed integrativa delle relazioni giuridicamente rilevanti, obbligo che incombe su entrambe le parti e, dunque, anche sull’amministrazione, in ragione del suo ruolo “servente”, in funzione del soddisfacimento dei bisogni della comunità, in attuazione del principio solidaristico e di quello democratico.

Ebbene, l’obbligo di provvedere è stato ritenuto sussistente anche in mancanza di una espressa disposizione normativa che tipizzi il potere del privato di presentare un’istanza e, dunque, anche in tutte le fattispecie particolari nelle quali “ragioni di giustizia e di equità” impongano l’adozione di un provvedimento, ovvero le volte in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni – qualunque esse siano – dell’amministrazione.

La giurisprudenza ha inoltre chiarito che, in presenza di una formale istanza, l’amministrazione è tenuta a concludere il procedimento anche se ritiene che la domanda sia irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondata, non potendo rimanere inerte; in altri termini, il legislatore ha imposto alla P.A. di rispondere in ogni caso alle istanze dei privati nel rispetto dei principi di correttezza, buon andamento, trasparenza, consentendo alle parti di difendersi in giudizio in caso di provvedimenti lesivi dei loro interessi giuridici; ne consegue che, anche in assenza di un formale procedimento e di una norma che espressamente ne disponga l’apertura, l’amministrazione ha l’obbligo (quale che sia il contenuto della relativa decisione) di provvedere sull’istanza non pretestuosa né abnorme del privato.

Servizi di NCC, residenza e legislazione regionale

Corte costituzionale, 29 ottobre 2024 n. 183

Enti locali – Regione Umbria – Trasporti – Servizi locali – NCC – Taxi – Illegittimità – Requisito della residenza – Ruolo dei conducenti

La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1, lettera i), della legge della Regione Umbria n. 17 del 1994, che prevedeva il requisito «di essere residente in uno dei Comuni della Regione Umbria» come necessario al fine dell’iscrizione nel ruolo dei conducenti per il servizio di taxi e per quello di noleggio di veicoli con conducente.

La disposizione censurata interviene sull’assetto individuato dal legislatore statale, alterando quell’equilibrio – tra il libero esercizio dell’attività di trasporto di persone mediante servizi pubblici non di linea e gli interessi pubblici interferenti con tale libertà – individuato dalla legge statale nell’esercizio della sua potestà legislativa esclusiva nella materia «tutela della concorrenza» (sentenze n. 36 del 2024, n. 56 del 2020, n. 265 e n. 30 del 2016). Tale assetto è capace di condizionare anche la potestà legislativa che le regioni possono esercitare nelle materie che ora sono di carattere residuale, «potendo influire su queste ultime fino a incidere sulla totalità degli ambiti materiali entro cui si estendono, sia pure nei limiti strettamente necessari per assicurare gli interessi alla cui garanzia la competenza statale esclusiva è diretta» (così, ancora, sentenza n. 56 del 2020). La disposizione, infatti, esibisce una contraddittorietà intrinseca tra la regola concernente la residenza che essa introduce, preclusiva della stessa presentazione della domanda di partecipazione all’esame per l’iscrizione nel ruolo dei conducenti, e la “causa” normativa che la deve assistere. Quest’ultima si ricava dall’esame della complessiva legge reg. Umbria n. 17 del 1994, che risulta improntata, conformemente alla legge quadro statale, alla strutturazione dell’esame come momento destinato ad accertare, anche a tutela dell’utenza, le specifiche idoneità tecniche (tra cui anche la conoscenza geografica e toponomastica del territorio) e le attitudini morali del soggetto aspirante al futuro svolgimento dell’attività in questione;

Il giudice costituzionale sull’autonomia differenziata

Corte Costituzionale, 3 dicembre 2024, n. 192

Legge n. 86 del 2024 – Autonomia differenziata – Regioni a statuto ordinario – Incostituzionalità parziale – Livelli essenziali dele prestazioni

La Corte costituzionale ha ritenuto non fondata la questione di costituzionalità dell’intera legge sull’autonomia differenziata delle regioni ordinarie (n. 86 del 2024), considerando invece illegittime specifiche disposizioni dello stesso testo legislativo.

L’art. 116, terzo comma, della Costituzione (che disciplina l’attribuzione alle regioni ordinarie di forme e condizioni particolari di autonomia) deve essere interpretato nel contesto della forma di Stato italiana. Essa riconosce, insieme al ruolo fondamentale delle regioni e alla possibilità che esse ottengano forme particolari di autonomia, i principi dell’unità della Repubblica, della solidarietà tra le regioni, dell’eguaglianza e della garanzia dei diritti dei cittadini, dell’equilibrio di bilancio.

La distribuzione delle funzioni legislative e amministrative tra i diversi livelli territoriali di governo, in attuazione dell’art. 116, terzo comma, non debba corrispondere all’esigenza di un riparto di potere tra i diversi segmenti del sistema politico, ma debba avvenire in funzione del bene comune della società e della tutela dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione. A tal fine, è il principio costituzionale di sussidiarietà che regola la distribuzione delle funzioni tra Stato e regioni. In questo quadro, l’autonomia differenziata deve essere funzionale a migliorare l’efficienza degli apparati pubblici, ad assicurare una maggiore responsabilità politica e a meglio rispondere alle attese e ai bisogni dei cittadini.

Spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua discrezionalità, colmare i vuoti derivanti dall’accoglimento di alcune delle questioni sollevate dalle ricorrenti, nel rispetto dei principi costituzionali, in modo da assicurare la piena funzionalità della legge.

La Corte resta competente a vagliare la costituzionalità delle singole leggi di differenziazione, qualora venissero censurate con ricorso in via principale da altre regioni o in via incidentale.

L’azione di ingiustificato arricchimento

Corte Suprema di Cassazione, Civile, Sez. III, 28 ottobre 2024 n. 27753

Pubblica amministrazione – Ingiustificato arricchimento – Azione ex art. 2041 c.c. – Assenza di utilitas della prestazione – Necessità di fornire la prova contraria – Insussistenza

Chi agisce a norma dell’art. 2041 cod. civ. il proprio depauperamento (e il contestuale arricchimento della Pubblica Amministrazione), l’accoglimento dell’iniziativa dallo stesso assunta incontra il solo “limite del divieto di arricchimento imposto”, giacché “il diritto fondamentale di azione del depauperato” deve “adeguatamente coniugarsi con l’esigenza, altrettanto fondamentale, del buon andamento dell’attività amministrativa, affidando alla stessa pubblica amministrazione l’onere di eccepire e provare il rifiuto dell’arricchimento o l’impossibilità del rifiuto per la sua inconsapevolezza”.

A stretto rigore, poi, non solo l’impoverito non deve provare alcuna utilità della P.A. in cui favore ha eseguito le sue prestazioni, ma neppure ha l’onere di dimostrare la regolarità dell’esecuzione di quelle, se non altro quando, come pare prospettato nella specie, quelle prestazioni pacificamente siano state rese: pertanto, i risultati di queste vanno valutati nella loro ontologica consistenza e, cioè, al fine di determinare l’entità concreta dell’arricchimento (benché una loro eventuale scorretta esecuzione possa diminuire tale entità); e sempre salvo il caso del cosiddetto arricchimento imposto, che non può riconoscersi.

Edilizia residenziale pubblica, concessione di alloggi e silenzio-assenso

Tar Lazio, Roma, sez. V ter, 26 novembre 2024, n. 21258

Edilizia residenziale pubblica – Concessione di alloggi – Silenzio assenzo – Esclusione – Ratio

La materia della concessione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica non contempla il silenzio assenso come fattispecie provvedimentale, coerentemente alla natura sostanzialmente concessoria del provvedimento, in quanto espressione della comparazione dei rilevanti interessi pubblici connessi alla regolare gestione del patrimonio abitativo popolare con quelli privati, riconducibili all’accesso all’abitazione di individui e nuclei familiari svantaggiati.

Classificazione delle aree e imposta sostitutiva di affrancamento

Consiglio di Stato, sez. IV, 5 novembre 2024, n. 8854

Pianificazione urbanistica – Classificazioni delle aree – Discrezionalità del Comune – Imposta sostituiva di affrancamento – Non rilevanza

È legittima la delibera del consiglio comunale che attribuisca ad un’area una classificazione che ne escluda l’originaria capacità edificatoria, a ciò non ostando che il privato abbia versato l’imposta sostituiva di affrancamento, prevista dall’art. 7 della legge n. 448 del 28 dicembre 2001, calcolata assumendo, “in luogo del costo o valore di acquisto” del terreno, “il valore a tale data determinato sulla base di una perizia giurata di stima”, in quanto, al tempo, detti beni possedevano la qualifica di edilizi ed erano soggetti al loro sfruttamento in quanto tali; in base ad una successiva scelta – da ritenersi razionale nel contemperamento degli interessi connessi alla riduzione del consumo di suolo ed al suo razionale sfruttamento – il Comune nella sua potestà pianificatoria ha fissato un criterio logico, quale quello temporale, per lo stralcio dal piano regolatore generale che ha comportato una modifica della destinazione.