Consiglio di Stato/TAR

Contratti pubblici e segretezza delle offerte

Tar Campania, Napoli, sez. III, 19 febbraio 2024, n. 1155

Contratti pubblici – Procedura di gara – Segretezza delle offerte – Principio di trasparenza – Mancata pubblicità – Principio di imparzialità – Annullamento e revoca in autotutela – Annullabilità – Titoli edilizi – Art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990 – Omessa comunicazione avvio procedimento

La segretezza delle offerte è riconducibile ai principi di imparzialità e buon andamento della P.A. (art. 97 Cost.), sub specie dei principii di trasparenza e par condicio dei concorrenti: la loro lesione deve essere apprezzata ex ante, rilevando, cioè, non solo la lesione effettiva del bene giuridico tutelato, ma anche il mero pericolo di lesione, sicché il condizionamento della valutazione rileva anche solo sotto il profilo potenziale, in quanto astrattamente idoneo a compromettere la garanzia di imparzialità dell’operato dell’organo valutativo.

L’obbligo di apertura delle offerte tecniche in seduta pubblica discende dal principio di trasparenza, espressamente richiamato dall’articolo 30 del d.lgs. 50/2016, secondo cui “nell’affidamento degli appalti e delle concessioni, le stazioni appaltanti rispettano, altresì, i principi di libera concorrenza, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità, nonché di pubblicità con le modalità indicate nel presente codice”.

La mancata pubblicità delle sedute di gara costituisce non una mera mancanza formale, ma una violazione sostanziale, che invalida la procedura, senza che occorra la prova di un’effettiva manipolazione della documentazione prodotta e le cui conseguenze negative sono difficilmente apprezzabili ex post, una volta rotti i sigilli e aperti i plichi. Ne discende che la rilevanza della violazione prescinde dalla prova concreta delle conseguenze negative derivanti dalla sua violazione, rappresentando un valore in sé, di cui la normativa nazionale e comunitaria predica la salvaguardia a tutela non solo degli interessi degli operatori, ma anche di quelli della stazione appaltante. Ai fini della tutela della segretezza delle offerte e per assicurare la par condicio e la trasparenza delle operazioni concorsuali, occorre che la Commissione di gara predisponga particolari cautele per la conservazione delle buste contenenti le offerte e di dette cautele si faccia espressa menzione nel verbale di gara, non potendo tale verbalizzazione essere surrogata da dichiarazioni postume del presidente circa lo stato di conservazione dei plichi.

Nelle gare pubbliche, viola il principio di segretezza delle offerte la mera circostanza che il plico sia pervenuto aperto alla Commissione di gara, indipendentemente dal soggetto cui sia addebitabile l’erronea apertura, dato che la regola è posta a garanzia dei principi di par condicio e di segretezza delle offerte, che altrimenti non risultano assicurati, in quanto l’apertura del plico deve essere effettuata dalla Commissione pubblicamente, in contraddittorio ed il giorno della gara, e non invece in circostanze tali da non consentire alcuna certezza in ordine al rispetto delle regole di legalità previste per lo svolgimento della gara; e ciò ancorché la busta contenente l’offerta economica sia intatta, essendo pervenuta alla Commissione regolarmente sigillata.

L’obbligo di predisporre adeguate cautele a tutela dell’integrità delle buste contenenti le offerte delle imprese partecipanti a gare pubbliche, in mancanza di apposita previsione da parte del legislatore, discende necessariamente dalla ratio che sorregge e giustifica il ricorso alla gara pubblica per l’individuazione del contraente, in quanto l’integrità dei plichi contenenti le offerte dei partecipanti è uno degli elementi sintomatici della segretezza delle offerte e della par condicio di tutti i concorrenti, assicurando il rispetto dei principi di buon andamento ed imparzialità, consacrati dall’art. 97 Cost., ai quali deve uniformarsi l’azione amministrativa.

Il principio di imparzialità (art. 97 Cost.), inteso come terzietà della P.A. rispetto agli interessi toccati dall’azione amministrativa, rileva non solo in una dimensione sostanziale, ma anche in una dimensione formale.

La dizione letterale di cui all’art. 21 nonies legge n.241/1990 fa riferimento, in generale, a “ragioni di interesse pubblico”, sicché nulla esclude, a priori, una rivalutazione dell’interesse pubblico originario, anche nel caso dell’annullamento d’ufficio di un precedente provvedimento amministrativo: si deve, più precipuamente, avere, però, riguardo alla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione, che sia diverso dal mero ripristino della legalità violata, dovendo anche considerarsi le posizioni giuridiche soggettive consolidate in capo ai destinatari.

L’esercizio del potere di cui all’art. 21-nonies l. n. 241/1990, postula, in particolare, un interesse pubblico attuale e concreto alla rimozione dell’atto, che non possa essere soddisfatto se non a danno dell’interesse del privato alla conservazione dell’atto annullato.

Il potere di revoca in autotutela, ai sensi dell’art. 21 quinquies, l. n. 241 del 1990, ha carattere discrezionale e si differenzia dal potere di autoannullamento, disciplinato dall’art. 21 nonies, l. n. 241/1990, in ragione della diversità dei presupposti, ricorrendo i quali può e deve essere esercitato l’uno o l’altro potere di secondo grado. In tal senso, se il presupposto per l’esercizio dell’annullamento d’ufficio è l’illegittimità del provvedimento originario, il presupposto della revoca, viceversa, consiste nella nuova valutazione della situazione originariamente giustificativa dell’emissione del primo provvedimento, ovvero della incompatibilità tra gli effetti dell’originario provvedimento e l’interesse pubblico che l’Amministrazione è chiamata a perseguire.

I presupposti dell’esercizio del potere di annullamento d’ufficio dei titoli edilizi sono costituiti dall’originaria illegittimità del provvedimento e dall’interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione, che è un principio diverso dal mero ripristino della legalità violata, tenendo anche conto delle posizioni giuridiche soggettive consolidate in capo ai destinatari. Conseguentemente, l’annullamento concerne il caso di illegittimità che inficia il provvedimento che ne viene colpito e che conseguentemente viene ritirato con effetto ex tunc.

La Stazione appaltante conserva, anche dopo l’aggiudicazione definitiva e addirittura dopo il conseguimento dell’efficacia di quest’ultima, il suo potere di autotutela rispetto alla procedura seguita nel caso in cui il rapporto risulti già viziato a monte, come stabilito dall’art. 32, comma 8, d.lgs. n. 50/2016; potere da esercitare ai sensi dell’art. 21-nonies, l. n. 241/1990, all’esito di una puntuale ed approfondita istruttoria. Difatti, il potere di annullamento in autotutela, nel preminente interesse pubblico al ripristino della legalità dell’azione amministrativa da parte della stessa Amministrazione procedente, deve riconoscersi alla stessa anche dopo l’aggiudicazione della gara e la stipulazione del contratto, con conseguente inefficacia di quest’ultimo, e trova ora un solido fondamento normativo, dopo le recenti riforme della l. n. 124/2015, anche nella previsione dell’art. 21-nonies, comma 1, l. n. 241/1990, laddove esso si riferisce anche ai provvedimenti attributivi di vantaggi economici, che non possono non ritenersi comprensivi anche dell’affidamento di una pubblica commessa. Ciò che è precluso a seguito della stipulazione del contratto è soltanto l’esercizio del potere di revoca, ma non anche di quello di annullamento d’ufficio, che, per sua natura, presuppone il riscontro di un vizio di legittimità dell’atto oggetto di annullamento.

Laddove il contenuto dell’atto lesivo non possa essere diverso da quello in concreto adottato, l’apporto collaborativo del privato non sarebbe comunque stato in grado di influire nel processo di formazione del provvedimento finale, con conseguente applicazione dell’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990. Ed invero, l’art. 21-octies, l. 241/1990, deve essere interpretato nel senso di evitare che l’amministrazione sia onerata in giudizio di una prova diabolica, e cioè della dimostrazione che il provvedimento non avrebbe potuto avere contenuto diverso in relazione a tutti i possibili contenuti ipotizzabili; pertanto, si deve porre a carico del privato quanto meno l’onere di allegare gli elementi conoscitivi che, se introdotti in fase procedimentale, avrebbero potuto influire sul contenuto finale del provvedimento.

L’omessa comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7, l. n. 241/1990 non inficia la legittimità del provvedimento finale in applicazione dell’art. 21-octies, comma 2, della medesima legge, laddove l’Amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto esser diverso da quello in concreto adottato.

Contratti pubblici e avvalimento

Tar Sardegna, Cagliari, sez. II, 20 febbraio 2024, n. 115

Contratti pubblici – Avvalimento – Indagine sugli elementi essenziali – Criteri – Contenuti – Accordo integrativo del contratto di avvalimento con la Stazione appaltante – Orientamenti giurisprudenziali – Dichiarazione di impegno

L’indagine in ordine agli elementi essenziali dell’avvalimento c.d. operativo deve essere svolta sulla base delle generali regole sull’ermeneutica contrattuale e, in particolare, secondo i canoni enunciati dal codice civile di interpretazione complessiva e secondo buona fede delle clausole contrattuali (artt. 1363 e 1367 cod. civ.).

Il contratto di avvalimento non deve necessariamente spingersi sino alla rigida quantificazione dei mezzi d’opera, all’esatta indicazione delle qualifiche del personale messo a disposizione, ovvero alla indicazione numerica dello stesso personale, purché l’assetto negoziale consenta l’individuazione delle esatte funzioni che l’impresa ausiliaria andrà a svolgere, direttamente o in ausilio all’impresa ausiliata e i parametri cui rapportare le risorse messe a disposizione; deve, cioè, prevedere, da un lato, la messa a disposizione di personale qualificato, specificando se per la diretta esecuzione del servizio, o per la formazione del personale dipendente dell’impresa ausiliata, dall’altro i criteri per la quantificazione delle risorse e/o dei mezzi forniti.

Nella giurisprudenza amministrativa ricorrono pronunce per le quali il contratto di avvalimento ha efficacia inter partes e, con lo stesso, l’impresa ausiliaria si obbliga nei confronti del concorrente ausiliato a fornire i requisiti e a mettere a disposizione le risorse necessarie per tutta la durata dell’appalto, mentre l’impresa ausiliaria si obbliga nei confronti della stazione appaltante con separata dichiarazione, mediante la quale mette a disposizione, per tutta la durata del contratto, le risorse necessarie di cui è carente il concorrente. Queste pronunce, tuttavia, sono condivisibili per i casi nei quali l’impegno dell’ausiliaria verso l’amministrazione, nel contratto di avvalimento, risulti lacunoso, generico o impreciso. Laddove, invece, l’impegno dell’ausiliaria verso la Stazione appaltante risulti chiaramente già dal contratto di avvalimento è preferibile aderire all’orientamento, anch’esso diffuso in giurisprudenza, per il quale costituirebbe un inutile aggravamento procedimentale richiedere a conferma dell’impegno assunto un atto autonomo e distinto dal contratto di avvalimento diretto personalmente ed autonomamente alla stazione appaltante.

La dichiarazione d’impegno e il contratto di avvalimento costituiscono atti distinti muniti di diversa funzione e la loro distinzione attiene al contenuto e significato (e conseguenti effetti giuridici) degli atti, non anche al supporto materiale (o “corpus physicum”) che li reca: la dichiarazione d’impegno, se provvista dei necessari requisiti e destinata alla stazione appaltante, può ben essere incorporata anche in un supporto coincidente con il contratto di avvalimento; ciò che rileva è l’assunzione delle obbligazioni da parte dell’ausiliaria direttamente nei confronti della stazione appaltante, non già il supporto redazionale che ne racchiude la fonte.

La dichiarazione d’impegno è una promessa unilaterale resa dall’ausiliaria alla stazione appaltante con l’impegno al rispetto delle obbligazioni assunte nel contratto di avvalimento (ed in particolare a non sottrarre le risorse messe a disposizione del concorrente per la durata dell’esecuzione del contratto di appalto). In tale prospettiva, la previsione nell’ambito del contratto (presentato alla stazione appaltante) di una clausola di tale tenore fa sì che si sia in presenza non già di un semplice contratto a favore di terzi, bensì di un negozio plurimo che contiene assieme una convenzione bilaterale fra l’ausiliaria e l’avvalente e una dichiarazione d’impegno unilaterale dell’ausiliaria nei confronti della stazione appaltante, efficace ex art. 1334 Cod. civ., una volta “presentata” ex art. 89, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016 alla stazione appaltante.

Quando il concorrente ricorre all’avvalimento al fine di conseguire requisiti di cui è carente e, nello strutturare e formulare la propria offerta tecnica, contempla anche le utilità fornite dall’ausiliaria (beni, mezzi, attrezzature, risorse, personale), i termini dell’offerta devono poter essere valutati e apprezzati in quanto tali con l’attribuzione dei relativi punteggi, nella prospettiva di una effettiva messa a disposizione della stazione appaltante all’esito dell’aggiudicazione e dell’affidamento del contratto.

Pianificazione urbanistica e collocazione sale da gioco

Consiglio di Stato, sez. IV, 14 febbraio 2024, n. 1476

Pianificazione urbanistica – Collocazione sale da gioco – Limitazioni – Compatibilità col diritto eurounitario – Effetto espulsivo – Protezione dell’interesse pubblico e libertà di iniziativa economica privata

Sono legittimi i limiti alla collocazione nel territorio delle sale da gioco e degli apparecchi per gioco lecito, in ragione della finalità di dette limitazioni a tutelare soggetti ritenuti maggiormente vulnerabili, o per la giovane età o perché bisognosi di cure di tipo sanitario o socio-assistenziale: le norme limitatrici, compatibili anche col diritto eurounitario, infatti, mirano alla tutela di soggetti ritenuti più fragili, prevenendo le conseguenze sociali del fenomeno del gioco compulsivo.

La previsione di rispettare una distanza minima di cinquecento metri con una superficie utile per installare gli apparecchi per il gioco lecito pari, in percentuale, a circa l’1% del territorio comunale, non determina effetto espulsivo e dunque, non vi è violazione dell’art. 1 del primo Protocollo addizionale della Cedu e degli articoli 16 e 17 della CDFUE, non essendovi alcun effetto espropriativo, né un’illegittima compressione della libertà di iniziativa economica privata.

Le misure immediatamente finalizzate alla prevenzione, al contrasto e alla riduzione del rischio di dipendenza dal gioco d’azzardo lecito, fondate sul motivo imperativo della prioritaria salvaguardia della salute pubblica, devono tenersi distinte da quelle programmatiche, attinenti alla regolazione allocativa dell’attività economica.

I principi di libera circolazione e di divieto di limitazione o restrizione presidiati dalle regole di trasparenza e pubblicità della direttiva CE 98/34 non sono né assoluti, né generalizzati, rientrando, in particolare, la disciplina dei giochi d’azzardo nei settori in cui sussistono fra gli Stati membri divergenze considerevoli di ordine morale, religioso e culturale, in base alle quali restrizioni alle predette attività di gioco possono essere introdotte se giustificate da ragioni imperative di interesse generale, come, ad esempio, la dissuasione dei cittadini da una spesa eccessiva legata al gioco medesimo.

Titoli edilizi e termini di impugnazione

Consiglio di Stato, sez. VI, 7 febbraio 2024, n. 1241

Titolo edilizio ordinario e in sanatoria – Impugnazione – Termini – Autorizzazione paesaggistica – Enti delegatari – Separazione organizzativa – Incompatibilità soggettiva – Compatibilità paesaggistica

In conformità alla natura ed alla modalità d’esecuzione delle opere, occorre tenere separato il regime d’impugnazione del titolo edilizio “ordinario” da quello applicabile al titolo edilizio “in sanatoria”. Nel primo caso, il termine di decadenza decorre dal completamento dei lavori, cioè dal momento in cui sia materialmente apprezzabile la reale portata dell’intervento in precedenza assentito. Nel secondo caso, il termine decorre dalla data in cui si abbia conoscenza che, per una determinata opera abusiva già esistente, è stata rilasciata la concessione edilizia in sanatoria. Quindi, il termine d’impugnazione di un titolo in sanatoria decorre dal momento in cui si conosca la circostanza del rilascio del medesimo atto per una determinata opera già esistente, la cui conoscenza deve essere dimostrata in giudizio al fine di far valere la tardività dell’impugnazione. Il destinatario di un provvedimento di sanatoria edilizia (che costituisce, pur sempre, una peculiarità dell’ordinamento, da tenere distinta dall’ipotesi del rilascio ordinario del titolo) non può beneficiare anche della decorrenza dalla pubblicazione all’albo pretorio del termine di impugnativa del provvedimento a lui favorevole; beneficio di cui neppure gode chi abbia (secondo l’ordinamento) ottenuto il rilascio di un provvedimento autorizzatorio prima dell’inizio dei lavori.

Ai sensi dell’art. 146, comma 6 D. Lgs. n. 42/2004, gli enti delegatari (come il Comune) del potere di autorizzazione paesaggistica debbono disporre «di strutture in grado di assicurare un adeguato livello di competenze tecnico-scientifiche nonché di garantire la differenziazione tra attività di tutela paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in materia urbanistico-edilizia». La doverosa distinzione organizzativa, infatti, riflette la distinzione sostanziale tra la funzione di tutela del paesaggio e quella di governo del territorio o urbanistica: è una distinzione che ha base nell’art. 9 Cost. (e oggi è confermata dall’art. 117, comma 2, lett. s), Cost.): la separazione organizzativa a livello comunale è voluta dalla legge ad adeguata prevenzione della possibile commistione in capo al Comune delle due competenze e a evitare che la valutazione urbanistica possa incidere sull’autonomia di quella, superiore e delegata, paesaggistica (non a caso l’art. 146, comma 4, prevede che « l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio »; cfr. anche art. 45, comma 2; art. 143, comma 4, lett. a), comma 5 e comma 9; art. 145, spec. commi 3, 4 e 5; art. 146, commi 5 e 6; art. 155, comma 2-bis; art. 159, comma 6): la quale ultima deve essere organizzativamente posta, nel Comune, in condizione di non subire incidenze gerarchiche o condizionamenti di sorta.

In relazione alla differenziazione imposta dall’art. 146, comma 6, d.lg. n. 42/2004, va assicurata sia la sussistenza di un adeguato livello tecnico scientifico sia la separazione organizzativa suddetta. Peraltro, anche a fronte delle consolidate difficoltà organizzative che hanno portato, ad esempio, all’unione dei comuni per lo svolgimento delle relative funzioni, in assenza della necessaria formalizzazione di una incompatibilità soggettiva, ciò che deve essere assicurato è la sussistenza di un adeguato livello tecnico scientifico nonché la differenziazione oggettiva di valutazione e della relativa attività.

E’ evidente che tale differenziazione sia meglio perseguibile in caso di divaricazione soggettiva dei soggetti titolari delle rispettive competenze; tuttavia, in assenza di una specifica regola di incompatibilità soggettiva si impone un’esegesi conforme all’autonomia ed alle carenze organizzative dei Comuni, salva ovviamente, a valle, l’attenta analisi delle censure dedotte avverso il provvedimento conclusivo e l’iter istruttorio, al fine di verificare la sussistenza nella specie delle adeguate cognizioni, della autonoma valutazione e della specifica esplicazione delle ragioni sottese alla decisione amministrativa, che la giurisprudenza impone sia per l’accoglimento del progetto, che per il diniego.

Invero, in linea generale, in assenza di una specifica tipologia di incompatibilità, prevale l’autonomia delle attività e delle valutazioni, garantita dal diverso iter procedimentale, nonché dai diversi presupposti oggetto di esame. Pertanto, a fronte di una valutazione basata su tali differenti presupposti (per un verso urbanistico edilizi e per l’altro di compatibilità rispetto al vincolo paesaggistico esistente) nonché di iter presso organi anche consultivi diversi, ed in assenza di specifici elementi da cui desumere una specifica incompatibilità, non è possibile inferire automaticamente che la stessa persona non possa partecipare, laddove ne abbia le competenze, a differenti valutazioni. È pur vero che proprio la diversità di valutazioni renderebbe opportuno, nell’interesse della stessa amministrazione, la divaricazione soggettiva dei funzionari responsabili; peraltro, la scarsità di risorse degli enti locali, specie di piccole dimensioni, rende di non facile raggiungimento tale auspicabile obiettivo; anche su tali considerazioni si fonda, presumibilmente, la stessa formulazione della norma invocata, che parla di garantire la differenziazione di attività. Ciò non toglie che il sindacato delle diverse valutazioni debba essere svolto con i dovuti specifici approfondimenti, pur nell’identità del progetto, distinguendo i presupposti di ammissibilità edilizia da quelli, ben distinti, della compatibilità col vincolo paesaggistico.

Il rinvio ai concetti di volumetria e superficie utile, di cui all’art. 167, comma 4, d.lg. n. 42/2004, per cui l’autorità preposta alla gestione del vincolo nei casi indicati accerta la compatibilità paesaggistica, deve interpretarsi nel senso di un rinvio, in via primaria, al significato tecnico-giuridico che tali concetti hanno in materia urbanistico-edilizia, in quanto si tratta di nozioni tecniche non specificate dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, bensì dalla normativa urbanistico-edilizia. In tema di compatibilità paesaggistica, anche ai fini di certezza del diritto, non può ritenersi ammissibile che, in ambito paesaggistico ex art. 167 d.lg. n. 42/2004, il concetto di superficie utile possa avere un significato diverso e più ampio rispetto a quello utilizzato nella materia urbanistica ed edilizia, tale da ricomprendervi sempre e comunque superfici calpestabili esterne. Ad esempio, il mero ampliamento di superfici esterne accessorie, qualificabili come balconi, ballatoi o terrazze, non costituisce da sé solo motivo ostativo all’avvio del procedimento volto al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica postuma, atteso che l’art. 167 del d. lgs. 22 gennaio 2004 n. 42 annovera — tra le cause ostative alla sanatoria — la creazione delle sole superfici utili e non anche delle superfici accessorie.

Abuso edilizio e prescrizione al diritto al conguaglio

Consiglio di Stato, sez. VII, 30 gennaio 2024, n. 911

Abuso edilizio – Istanza in sanatoria – Silenzio assenso – Prescrizione diritto al conguaglio delle somme dovute – Condizioni – Decorrenza – Modifica destinazione d’uso con alterazione del carico urbanistico – Preavviso di rigetto – Sanatoria processuale

Il termine di 24 mesi, decorso il quale si forma il silenzio assenso su una domanda di condono edilizio, presuppone che la domanda stessa sia completa di tutta la documentazione necessaria a valutarla.

Le normative che disciplinano i condoni e il decorso dei termini fissati – ventiquattro mesi per la formazione del silenzio-accoglimento sull’istanza di condono edilizio e trentasei mesi per la prescrizione dell’eventuale diritto al conguaglio delle somme dovute – presuppongono, in ogni caso, la completezza della domanda di sanatoria, accompagnata, in particolare, dall’integrale pagamento di quanto dovuto a titolo di oblazione, per quanto attiene la formazione del silenzio-accoglimento.

Il termine di prescrizione dell’eventuale diritto al conguaglio delle somme versate decorre dal momento di formazione del titolo edilizio in sanatoria – in modo espresso o secondo il meccanismo dell’accoglimento tacito – e non dal momento di presentazione della domanda.

Il mutamento di destinazione di uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie configura, in ogni caso, un’ipotesi di ristrutturazione edilizia; ciò in quanto l’esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente.

Sussiste una differenza netta tra mutamento della destinazione d’uso all’interno della stessa categoria funzionale e cambio di destinazione d’uso che operi un passaggio tra diverse categorie funzionali (ad esempio: da rurale a commerciale). Quest’ultimo, infatti, anche se operato in assoluta carenza di opere, è riconducibile alla categoria degli “interventi di nuova costruzione” di cui alla lett. e) dell’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 (ovvero “interventi di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti”), con necessario assoggettamento a permesso di costruire ex art. 10, comma 1, lett. a), dello stesso testo unico e al relativo regime contributivo e sanzionatorio.

Ferma la necessità del preavviso di rigetto anche in materia di condono edilizio, la regola contenuta dell’art. 21 octies della legge n.241/1990, che esclude l’applicabilità della c.d. sanatoria processuale del provvedimento annullabile in caso di violazione delle garanzie partecipative offerte dall’art. 10 bis, si applica ai soli provvedimenti discrezionali.

Piani urbanistici particolareggiati

Tar Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 14 febbraio 2024, n. 109

Titolo edilizio – Discrasia contenutistica – Piani urbanistici particolareggiati – Decadenza – Ultrattività – Ratio

In caso di discrasia tra il contenuto della relazione tecnica allegata alla domanda di permesso di costruire e il segno grafico presente nel progetto disponibile presso il Comune, deve darsi prevalenza al primo.

L’art.17, comma 3, della l. 17.8.1942 n.1150 (Legge Urbanistica) disciplina, in concreto, la c.d. “ultrattività residuale dei piani particolareggiati” decaduti per decorso del tempo. La norma stabilisce, infatti, che “decorso il termine stabilito per l’esecuzione del piano particolareggiato, questo diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione”, soggiungendo che resta “fermo a tempo indeterminato l’obbligo di osservare, nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso”.

In particolare, l’intervenuta decadenza del piano (per il decorso del tempo fissato ex lege per la sua attuazione) non determina automaticamente l’inedificabilità delle aree oggetto della pianificazione ed il conseguente blocco di ogni attività nella zona, dovendosi ritenere consentito il completamento delle opere di urbanizzazione in corso di realizzazione e l’edificazione, in conformità alle prescrizioni urbanistiche di zona (cioè secondo gli indici di edificabilità praticati secondo il piano) nelle aree già lottizzate e dotate delle opere di urbanizzazione. La ratio della norma è infatti diretta ad evitare che l’assetto urbanistico della zona resti in uno stato di permanente disordine e che la pianificazione resti parzialmente inattuata e l’edificazione incompleta (o incompiuta) rispetto alle previsioni.

Il citato art.17 ha pertanto la duplice funzione di precludere – per un verso – la proroga sine die di piani attuativi mai avviati (o rimasti inattuati o quasi del tutto inattuati) ed ormai scaduti (e presumibilmente obsoleti in quanto non più conformi alle mutate esigenze urbanistiche), e di salvare – per altro verso – le opere già realizzate, consentendo comunque (al fine di evitare un danno urbanistico/ambientale maggiore rispetto a quello cagionato dalla visione della incompiutezza delle opere) il completamento urbanistico delle aree nelle quali la pianificazione sia stata correttamente avviata, consentendo, cioè, l’ultimazione delle opere di urbanizzazione in corso e la ordinata edificazione, in conformità agli indici praticati nella zona, secondo le disposizioni del piano stesso.

Revoca dell’interdittiva antimafia

Tar Campania, Napoli, sez. I, 13 febbraio 2024, n. 1061

Procedimento amministrativo – Invalidità caducante e viziante – Interdittiva antimafia – Revoca titoli edilizi

L’intervenuta revoca dell’informazione interdittiva antimafia determina anche il travolgimento degli effetti della revoca dei titoli abilitativi rilasciati in favore del destinatario della misura, quando determinata sulla base di tale unico fondamentale presupposto.

In linea generale, in presenza di vizi dell’atto presupposto deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l’annullamento dell’atto presupposto si estende automaticamente all’atto conseguenziale anche quando quest’ultimo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l’atto conseguenziale è affetto da illegittimità derivata, e resta efficace ove non ritualmente impugnato; la prima ipotesi ricorre nel solo caso in cui l’atto successivo venga a porsi nell’ambito della medesima sequenza procedimentale, quale inevitabile conseguenza dell’atto anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi. Ne discende la necessità di valutare l’intensità del rapporto di conseguenzialità tra l’atto presupposto e l’atto successivo, con riconoscimento dell’effetto caducante qualora detto rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l’atto successivo si ponga, nell’ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all’atto precedente.

Tar Campania, Napoli, sez. VI, 12 febbraio 2024, n. 998

Circolazione stradale – Discrezionalità amministrativa

In materia di circolazione stradale e tutela della sicurezza e della viabilità, la legge attribuisce all’ente locale un’ampia discrezionalità amministrativa, confinante con valutazioni politiche, che connota l’esercizio del relativo potere e che consente l’adozione di tali provvedimenti con minimi oneri motivazionali e senza l’espletamento di particolari attività istruttorie.

Consiglio di Stato, sez. IV, 2 febbraio 2024, n. 1115

Servizi pubblici – Servizio idrico integrato – Natura giuridica – Ricostruzione storico-normativa – Principio di unicità della gestione – Rapporto regola/eccezione

  1. con la legge n. 103 del 29 marzo 1903 (legge Giolitti), l’ordinamento ha disciplinato l’assunzione diretta dei servizi pubblici da parte dei Comuni.
  2. Con la legge n. 142 del 8 giugno 1990, si è ribadita la titolarità dei comuni e della provincia nella erogazione delle prestazioni derivanti dai servizi pubblici, prevedendo quale forma di gestione, tra l’altro, quello dell’azienda speciale (articoli 22 e 23, comma 1).
  3. La legge n. 36 del 5 gennaio 1994, legge Galli, ha disciplinato, in via generale, il servizio idrico integrato (SII), prospettando, per la prima volta, all’art. 8, comma 2, il passaggio da un sistema frazionato ad uno affidato ad operatori specializzati sul mercato (con creazione, da parte delle Regioni, degli ambiti territoriali ottimali).
  4. Il d.lgs. n. 267 del 2000, all’art. 113, ha innovato la materia quanto alle forme di gestione dei servizi pubblici, lasciando agli Enti locali la libertà di scelta più confacente alla situazione di fatto e alle inclinazioni della stessa Amministrazione (in economia, in concessione a terzi, azienda speciale, istituzione, società per azioni o a responsabilità limitata a prevalente capitale pubblico locale costituite o partecipate dall’ente titolare del pubblico servizio, società per azioni senza il vincolo della proprietà pubblica maggioritaria).
  5. Gli artt. 147 e ss. d.lgs. n. 152/2006 hanno disciplinato il servizio idrico integrato, ribadendo (come la precedente legge Galli) l’individuazione di Autorità d’ambito per la gestione sovracomunale del servizio, a cui i Comuni afferiscono, anche dando in concessione beni di proprietà comunale attinenti al servizio idrico. In particolare, l’art. 150 ha affidato la scelta della forma di gestione all’autorità di ambito territoriale ottimale (ATO), fra quelle previste dall’art. 113, comma 5, d.lgs. n. 267 del 2000.
  6. L’art. 23 bis del D.L. n. 112/2008, “al fine di favorire la più ampia diffusione dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi”, ha adottato, con riferimento ai servizi pubblici locali di rilevanza economica, norme improntate alla concorrenza contenenti limitazioni alla gestione diretta dei servizi pubblici (ivi compreso il SII). Si è previsto che la gestione dei servizi pubblici locali potesse avvenire solo con gara o essere affidato a società miste con socio privato scelto con gara c.d. “a doppio oggetto”. La gestione in house e le altre forme di gestione diretta sono pertanto divenute possibili solo in casi limitati e, per certi versi.
  7. L’art. 2, comma 186 bis, legge n. 191/2009, come modificato dall’art. 1, comma 1 quinquies, d.l. n. 2/2010, ha soppresso le autorità d’ambito territoriale ottimale.
  8. La consultazione effettuata mediante lo svolgimento del referendum del 12 e 13 giugno 2011 ha poi abrogato l’art. 23 bis d.l. n. 112/2008: con la sentenza n. 199/2014, la Corte costituzionale ha chiarito che, quale conseguenza del referendum che ha abrogato l’art. 23 bis d.l. n. 112/2008, deriva “l’applicazione immediata nell’ordinamento italiano della normativa comunitaria (meno restrittiva rispetto a quella oggetto di referendum) relativa alle regole concorrenziali minime in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione di servizi pubblici di rilevanza economica”.
  9. Successivamente al referendum, l’art. 4 della legge 13 agosto 2011, n. 138 e, poi, l’art. 25 del d.l. n. 1 del 24 gennaio 2012 hanno disciplinato nuovamente la materia dei servizi pubblici locali e introdotto un sistema simile a quello previsto dall’art. 23 bis e, per certi versi, addirittura più restrittivo, escludendo, però, dalla sua applicazione soltanto il S.I.I.. La Corte cost. n. 20/2012 ha dichiarato incostituzionale l’art. 4 legge n. 138/2011.
  10. Successivamente, l’art. 7, comma 1, lett. b), n.1), del d.l. n. 133 del 12 settembre 2014 ha introdotto un nuovo art. 147, comma 1 che ha disposto, per quel che qui interessa, che i “servizi idrici sono organizzati sulla base degli ambiti territoriali ottimali definiti dalle regioni in attuazione della legge 5 gennaio 1994, n. 36. […] Gli enti locali ricadenti nel medesimo ambito ottimale partecipano obbligatoriamente all’ente di governo dell’ambito, individuato dalla competente regione per ciascun ambito territoriale ottimale, al quale è trasferito l’esercizio delle competenze ad essi spettanti in materia di gestione delle risorse idriche, ivi compresa la programmazione delle infrastrutture idriche di cui all’articolo 143, comma”. La norma ha inoltre previsto, nell’art. 147, la salvaguardia delle gestioni in autonomia dei comuni “montani” con meno di 1.000 abitanti, e un nuovo art. 149 bis, nel d.lgs. n. 152/2006. A mente di quest’ultima disposizione, “L’ente di governo dell’ambito, nel rispetto del piano d’ambito di cui all’articolo 149 e del principio di unicità della gestione per ciascun ambito territoriale ottimale, delibera la forma di gestione fra quelle previste dall’ordinamento europeo provvedendo, conseguentemente, all’affidamento del servizio nel rispetto della normativa nazionale in materia di organizzazione dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica. Alla successiva scadenza della gestione di ambito, al fine di assicurare l’efficienza, l’efficacia e la continuità del servizio idrico integrato, l’ente di governo dell’ambito dispone l’affidamento al gestore unico di ambito entro i sei mesi antecedenti la data di scadenza dell’affidamento previgente. Il soggetto affidatario gestisce il servizio idrico integrato su tutto il territorio degli enti locali ricadenti nell’ambito territoriale ottimale.”.
  11. Con l’art. 62, comma 4, della legge n. 221 del 28 dicembre 2015, si è ampliata la salvaguardia estendendola a gestioni “esistenti” nei comuni più popolosi e non necessariamente “montani”, qualora la gestione presenti le caratteristiche previste dalla norma (la lettera “b”).
  12. Da ultimo, deve darsi conto del d.lgs. 23 dicembre 2022, n. 201, sui servizi pubblici, il quale, all’art. 33, comma 3, ha previsto che “Fermo restando quanto previsto dall’articolo 147, comma 2-ter, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, la gestione in economia o mediante aziende speciali, consentita nei casi di cui all’articolo 14, comma 1, lettera d), è altresì ammessa in relazione alle gestioni in forma autonoma del servizio idrico integrato di cui all’articolo 147, comma 2-bis, lettere a) e b), del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, conformi alla normativa vigente”.

L’art. 147, comma 1, d.lgs. n. 152/2006, dispone che “I servizi idrici sono organizzati sulla base degli ambiti territoriali ottimali definiti dalle regioni in attuazione della legge 5 gennaio 1994, n. 36. […]”. Il medesimo articolo, al comma 2-bis, dispone, per la parte che interessa, che: “Sono fatte salve: … b) le gestioni del servizio idrico in forma autonoma esistenti, nei comuni che presentano contestualmente le seguenti caratteristiche: approvvigionamento idrico da fonti qualitativamente pregiate; sorgenti ricadenti in parchi naturali o aree naturali protette ovvero in siti individuati come beni paesaggistici ai sensi del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio2004, n. 42; utilizzo efficiente della risorsa e tutela del corpo idrico. Ai fini della salvaguardia delle gestioni in forma autonoma di cui alla lettera b), l’ente di governo d’ambito territorialmente competente provvede all’accertamento dell’esistenza dei predetti requisiti”.

È chiara la volontà del legislatore di disciplinare il fenomeno della gestione del servizio idrico quale species peculiare della nozione del “servizio pubblico”. Si evidenzia, altresì, la sussistenza di un principio di ordine generale, anche testualmente espresso (cfr. art. 149-bis, primo comma, d.lgs. n. 152/2006), di unicità della gestione in base al quale può affermarsi che la gestione unica ed accentrata costituisce la regola, mentre quella polverizzata e autonoma costituisce l’eccezione (arg. da 147, comma 2-bis, d.lgs. n. 152/2006). Circostanza quest’ultima confermata anche dall’art. 5 d. lgs. 201/2022. Nell’interpretazione della locuzione “gestioni del servizio idrico in forma autonoma esistenti” (e in particolare del sintagma “gestione esistente”) si deve prediligere quell’esegesi che sia corrispondente alla “tendenza-principio” manifestata nell’ordinamento ad una gestione accentrata e, pertanto, che sia conforme al rapporto regola-eccezione innanzi tratteggiato: per “gestioni esistenti” dovranno pertanto intendersi soltanto quelle modalità di conduzione del servizio idrico che possano ricondursi ad una legittima assunzione ed erogazione del servizio, consacrata in atti regolatori e provvedimenti amministrativi, mentre non potranno assumere rilievo le gestioni nelle quali la conduzione del servizio risulta avvenire semplicemente in via “di fatto”.

Affidamenti in house e oneri motivazionali

Consiglio di Stato, sez. V, 26 gennaio 2024, n. 843

Servizi pubblici – In house providing – Onere motivazionale rafforzato – Valutazione di efficienza – Congruità economica

Anche in presenza di un principio di libera amministrazione circa le modalità di svolgimento di un servizio (ossia se in outsourcing oppure direttamente o in house) il ricorso al modello in house può essere condizionato alla dimostrazione dei vantaggi per la collettività specificamente connessi al ricorso all’operazione interna. In particolare, i vantaggi vanno espressi in termini di qualità dei servizi forniti.

In caso di affidamento diretto, occorre sempre dare specificamente conto delle ragioni del mancato ricorso al mercato: la motivazione sottesa all’opzione internalizzante può essere unitaria, ogni qual volta le ragioni addotte giustifichino il mancato ricorso al mercato e integrino i richiesti benefici per la collettività attesi dal modello in house.

Invero, i benefici per la collettività attesi dall’organizzazione in house dello stesso e le ragioni del mancato ricorso al mercato costituiscono le due facce di una medesima realtà, di cui colgono, rispettivamente, gli elementi positivi (inclinanti la valutazione dell’Amministrazione verso l’opzione gestionale di tipo inter-organico) e quelli negativi (sub specie di indisponibilità di quei benefici attraverso il ricorso al mercato.

Sono tre i fattori che occorre valutare nel percorso motivazionale di cui all’art. 192, comma 2, del decreto legislativo n. 50 del 2016 (ratione temporis vigente), ossia in occasione della decisione di optare per il regime in house in luogo di quello outsourcing (ricorso al mercato mediante sistema di pubbliche gare) : A) le ragioni del mancato ricorso al mercato ossia il fallimento del mercato; B) i benefici per la collettività; C) la congruità economica dell’offerta.

L’affidamento in house non può rivelarsi preferibile rispetto alla opzione outsourcing unicamente per la generica ritenuta presenza di controlli più pregnanti (il che si tradurrebbe in una violazione dell’art. 192 per motivazione generica), ma è richiesto, in particolare, che sia predisposto un sistema di pianificazione e di controllo direzionale (attraverso ossia un meccanismo fluido e continuo di pianificazione, progettazione e gestione, nonché mediante un articolato sistema di obiettivi e indicatori di risultato) più efficiente, come risultante dalla misurazione dell’output ossia dei risultati effettivamente conseguiti.

Ed una valutazione di efficienza del concepito modello di gestione e di valutazione deve essere operata in concreto.

Con riferimento alla convenienza economica, l’art. 192 non impone che vi debba essere un risparmio in termini finanziari del modello in house (la disposizione di cui all’art. 192 parla infatti di “conguità economica” in sé ma non di maggiore convenienza o di risparmio in termini finanziari), dunque, non deve tenersi conto della differenza tra impatto finanziario (basato sulle mere uscite) ed impatto economico (basato sui costi ossia sul tasso di utilizzo delle risorse da impiegare). In particolare, la congruità economica deve essere valutata sia in termini puramente interni all’organismo in house (congruità economica endogena), sia in termini esterni ossia nei rapporti tra quest’ultimo e l’ente controllante (congruità economica esogena).