Consiglio di Stato/TAR

Abuso edilizio e costruzioni ante 1967

Consiglio di Stato, sez. II, 8 febbraio 2024, n. 1297

Abuso edilizio – Abusi commessi ante 1967 – Regolamento edilizio su costruzione in aree fuori del centro abitato – Principio di uguaglianza – Certificato di abitabilità – Effetto sanante – Ratio – Certificato di agibilità – Ratio

Il regolamento edilizio discrezionalmente adottato da un ente locale, che prima del 1967 abbia subordinato l’esercizio del jus aedificandi al rilascio della licenza edilizia anche per l’edificazione al di fuori del centro abitato, non integra la violazione del principio di uguaglianza formale e/o sostanziale sotto il profilo anche della diversità di trattamento a cui sarebbero stati sottoposti in relazione all’esercizio del jus aedificandi, a seconda che l’edificazione fosse o meno avvenuta in un Comune che aveva adottato quel regolamento, intuitivamente diverse essendo le singole realtà locali, con la conseguenza che neppure è immediatamente apprezzabile la violazione del principio di uguaglianza e la connessa diversità di trattamento.

Il rilascio del certificato di abitabilità non ha alcun effetto sanante rispetto alle opere abusive, in quanto la illiceità dell’immobile sotto il profilo urbanistico-edilizio non può essere in alcun modo sanata dal conseguimento del certificato di agibilità che riguarda profili diversi; i due provvedimenti svolgono funzioni differenti e hanno diversi presupposti che ne condizionano il rispettivo rilascio.

Il certificato di agibilità serve ad accertare che l’immobile è stato realizzato nel rispetto delle norme tecniche in materia di sicurezza, salubrità, igiene e risparmio energetico degli edifici e degli impianti, viceversa il titolo edilizio attesta la conformità dell’intervento alle norme edilizie ed urbanistiche che disciplinano l’area da esso interessata.

Titolo edilizio e “serre”

Consiglio di Stato, sez. II, 15 marzo 2024, n. 2501

Titolo edilizio – Impianto serricolo – Caratteri – Attività libera – Requisiti

Un impianto serricolo, in quanto tale, è estraneo al regime della concessione qualora sia funzionale allo svolgimento dell’attività agricola e non abbia requisiti di stabilità o di rilevante consistenza, tali da alterare in modo duraturo l’assetto urbanistico-ambientale.

Le condizioni perché un manufatto definibile come “serra” possa rientrare nella attività libera sono: – l’assenza di opere in muratura, ossia di manufatti la cui rimozione ne implichi necessariamente la demolizione; – la stagionalità, ossia l’attitudine ad essere periodicamente rimossa e reinstallata, con la conseguenza che, essendovi la prospettiva della rimessione in pristino, lo stato dei luoghi non può dirsi definitivamente modificato. Occorre ulteriormente precisare, quanto ai requisiti suddetti, che, se l’assenza di muratura risulta necessaria quale prova evidente (e prospettica, all’atto della realizzazione) della semplice e periodica amovibilità del manufatto (alla quale la presenza di muratura, invece, risulterebbe ovviamente ostativa), la stagionalità qualifica, appunto, la temporaneità o, se si vuole, la “periodicità” della presenza del manufatto sul territorio.

Ciò che, più precisamente, caratterizza la serra è non solo la attitudine ad essere periodicamente rimossa e reinstallata, ma anche e soprattutto la sua effettiva e periodica rimozione: solo in questo modo, infatti, la serra non costituisce una alterazione stabile, permanente del territorio (come tale abbisognevole di titolo edilizio), ma un intervento temporalmente definito (ancorché destinato a ripresentarsi nel tempo).

Mentre all’atto della realizzazione della serra assume un ruolo rilevante l’assenza di muratura (che negherebbe, ove presente, ex se la amovibilità), in epoca successiva ciò che rileva è la prova della stagionalità, offerta dalle già intervenute, periodiche rimozioni; prova che deve essere offerta dall’interessato, in quanto afferente ad un elemento che integra la riconducibilità del manufatto a serra e, dunque, la sua esclusione dall’esigenza di idoneo titolo edilizio.

Abusi edilizi e “centro abitato”

Consiglio di Stato, sez. II, 22 marzo 2024, n. 2798

Abuso edilizio – Ordinanza di demolizione e ripristino dello stato di luoghi – Inottemperanza – Notifica – Ratio – Edificazione libera – Onere probatorio – Centro abitato – Definizione – Distanza edificazione da nastro stradale

La notifica del verbale di inottemperanza costituisce una parentesi accertativa/informativa quando il procedimento sanzionatorio è destinato a sfociare nella perdita della proprietà. Essa da un lato consente all’amministrazione di verificare l’elemento materiale dell’illecito, dall’altro mette il suo autore in condizione di difendersi, potendo trattarsi del nudo proprietario, estraneo e finanche inconsapevole della prima fase del procedimento. Risponde dunque ad esigenze di garanzia di difesa, ma anche a logiche di risparmio, stante che l’avvenuta demolizione spontanea, seppure tardiva, soddisfa pienamente e a costo zero le esigenze di buon governo del territorio dell’Amministrazione vigilante. Il rispetto delle scansioni procedurali previste dal legislatore, quindi, lungi dal costituire baluardo meramente formale strumentalmente invocato per procrastinare, ovvero scongiurare, la demolizione dell’abuso, costituisce il giusto punto di incontro fra i contrapposti interessi tutelati, ovvero la salvaguardia dell’ordinato sviluppo del territorio, di cui il previo titolo edilizio costituisce garanzia primaria, e la tutela della proprietà, destinata comunque a recedere laddove il titolare non sacrifichi al suo mantenimento il doveroso ripristino spontaneo dello stato dei luoghi. Il che poi, sotto altro concorrente profilo, conduce a non svalutare il valore del verbale del sopralluogo, in genere demandato alla Polizia municipale, che constata l’omessa demolizione del manufatto abusivo.

L’obbligo di comprovare la preesistente consistenza di un immobile all’epoca di edificazione libera grava sulla proprietà. Il privato, cioè, è onerato a provare la data di realizzazione dell’intervento edilizio, non solo per poter fruire del beneficio di una sanatoria, ma anche – in generale – per potere escludere la necessità del previo rilascio del titolo abilitativo, ove si faccia questione di opera risalente ad epoca anteriore all’introduzione del regime amministrativo autorizzatorio dello ius aedificandi. Solo il privato, infatti, può fornire (in quanto ordinariamente ne dispone) inconfutabili atti, documenti o altri elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione del manufatto, mentre l’amministrazione non può, in via generale, materialmente accertare quale fosse la situazione all’interno del suo territorio negli anni precedenti al 1967. Come è noto, infatti, solo con l’art. 10 della l. n. 765/1967 (entrata in vigore il 1° settembre 1967), l’obbligo di licenza edilizia è stato esteso a tutti gli interventi edilizi (intesi quali nuove costruzioni, ampliamenti, modifiche e demolizioni di manufatti esistenti, nonché opere di urbanizzazione) eseguiti sull’intero territorio comunale. In precedenza, l’art. 31, comma 1, della l. n. 1150 del 1942 lo prevedeva solo per certi interventi edilizi e limitatamente ad alcune zone territoriali, ovvero, per quanto qui di interesse, i centri abitati e, ove esisteva il piano regolatore comunale, anche le zone di espansione ivi espressamente indicate, salvo quanto dettato per altre zone o per tutto il territorio comunale dal Regolamento edilizio, accompagnato o meno dal Programma di fabbricazione comunale. Al fine di agevolare la prova di tale stato legittimo dell’immobile, laddove si tratti di manufatti che insistono in loco da molti anni, il legislatore ha introdotto il comma 2-bis nell’art. 9-bis del d.P.R. n. 380 del 2001 (d.l. n. 76 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 120 del 2020), che consente di attingere ai titoli abilitativi relativi non solo alla sua originaria edificazione, ma anche alle sue successive vicende trasformative.

La definizione di “centro abitato” non è rinvenibile in termini univoci, per cui occorre far riferimento a criteri empirici elaborati dalla giurisprudenza. Esso trova ora riscontro nell’art. 3 del c.d. nuovo codice della strada, che lo identifica in un «insieme di edifici, delimitato lungo le vie di accesso dagli appositi segnali di inizio e fine», che tuttavia nasce per esigenze di diversificazione delle regole di circolazione stradale. Va, dunque, individuato nella situazione di fatto costituita dalla presenza di un aggregato di case continue e vicine, comunque suscettibile di espansione, ancorché intervallato da strade, piazze, giardini o simili. La sua rilevanza urbanistica discende dalla legge n. 765 del 1967 (cosiddetta legge ponte) che introducendo l’art. 41-quinquies nella l. n. 1150 del 1942, lo utilizza quale concetto per disciplinare l’edificazione nei Comuni privi di piano regolatore o di programma di fabbricazione e, quindi, dal D.M. 1° aprile 1968, n. 1404, in ordine alle distanze dell’edificazione dal nastro stradale. Non risponde dunque al preciso disposto del richiamato art. 41-quinquies, comma 6, della l. 17 agosto 1942, n. 1150, assimilare ciò che nel lessico comune fa pensare all’originario nucleo abitato (il “borgo antico”, appunto), alla necessaria perimetrazione di una zona espressamente richiesta dalla legge.

Rendiconto e principio di intangibilità

Tar Lazio, Roma, sez. I ter, 25 marzo 2024, n. 5904

Rendiconto – Approvazione – Modificabilità – Principio di intangibilità – Principio di flessibilità – Errori materiali

Il principio di intangibilità del rendiconto, in termini generali, risulta codificato all’art. 150 del regio decreto 23 maggio 1924, n. 827, recante “Regolamento per l’amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato”, laddove si prevede che “il rendiconto generale una volta chiuso ed approvato per legge è intangibile, né può essere modificato in nessuna delle sue parti”.

Con riferimento agli Enti territoriali che non approvano il rendiconto con legge, quali i Comuni, l’intangibilità di quest’ultimo può ritenersi discendente dal principio di annualità del bilancio, enunciato nell’Allegato n. 1 al d.lgs. n. 118/2011, secondo cui “i documenti del sistema di bilancio, sia di previsione sia di rendicontazione, sono predisposti con cadenza annuale e si riferiscono a distinti periodi di gestione coincidenti con l’anno solare[…]”. Al contempo, lo speculare principio di flessibilità previsto dal medesimo allegato al d.lgs. n. 118/2011 è riferito al solo bilancio di previsione (“nel sistema del bilancio di previsione i documenti non debbono essere interpretati come immodificabili, perché questo comporterebbe una rigidità nella gestione che può rivelarsi controproducente”).

Il rendiconto è il risultato derivante da un anno di fatti gestori che sono stati registrati nella contabilità dell’ente. Quanto esposto in un rendiconto approvato non può essere rivisto dalla stessa amministrazione, se non in presenza di meri errori materiali, in forza dei principi di irretrattabilità dei saldi e continuità e veridicità dei bilanci. Pertanto, sono ammesse rettifiche a fronte di meri errori materiali documentati, che non sono pertanto ostativi alla rettifica di specifici allegati del rendiconto.

Secondo un’interpretazione conforme a Costituzione (Cost. artt. 97 c. 1, 119 c.1), si ammette una successiva rettifica di meri errori materiali dei documenti contabili, al fine di attestare il rispetto degli equilibri di bilancio.

Incarico di Comandante dei Vigili Urbani

Consiglio di Stato, sez. V, 15 marzo 2024, n. 2518

Pubblico impiego – Atti di macro-organizzazione – Atto di conferimento dell’incarico di Comandante dei Vigili Urbani – Soggetti legittimati – Legge regionale Abruzzo n. 42/2013 – Ratio – Direzione uffici comunali ordinari – Divieto di inversione

L’atto di conferimento dell’incarico ad interim di Comandante dei Vigili Urbani è immediatamente lesivo trattandosi di provvedimento di riorganizzazione del settore che incide anche sui compiti che il medesimo dovrà svolgere. Tale atto rientra nella categoria degli atti di macro-organizzazione, in quanto si verte pacificamente su linee fondamentali della organizzazione e del funzionamento degli uffici.

La funzione di Comandante dei Vigili Urbani può essere assunta soltanto da personale dei “ruoli” della stessa polizia locale. Ciò è espressamente previsto dalla legge regionale Abruzzo n. 42 del 2013. La ratio di tale scelta legislativa risiede nel fatto che il personale dei ruoli della PM viene originariamente reclutato con certi criteri e secondo determinati profili professionali e formativi, tali da poter svolgere funzioni di polizia giudiziaria, di sicurezza pubblica e stradale (mansioni di una certa delicatezza che non sono abilitati a svolgere funzionari e dirigenti di altri settori “ordinari” dell’ente); del resto, in caso di assenza o impedimento del comandante, possono sopperire solo il vice comandante oppure, in assenza anche di quest’ultimo, il personale comunque del Corpo o Servizio di polizia locale (cfr. art. 5, comma 5, della citata legge regionale n. 42 del 2013).

La legge n. 208 del 2015, comma 221, prevede, in particolare, al secondo periodo che: “Allo scopo di garantire la maggior flessibilità della figura dirigenziale nonché il corretto funzionamento degli uffici, il conferimento degli incarichi dirigenziali può essere attribuito senza alcun vincolo di esclusività anche ai dirigenti dell’avvocatura civica e della polizia municipale”. Dunque, i dirigenti della PM e dell’avvocatura comunale possono eccezionalmente assumere la direzione di uffici ordinari dell’ente ma non anche il contrario (ossia dirigenti esterni alla PM non possono diventare comandanti della stessa); depone in tal senso, innanzitutto, la formulazione letterale della disposizione secondo cui può essere attribuito il “conferimento degli incarichi dirigenziali” ma non anche il ruolo di avvocato dell’ente oppure di comandante della polizia locale. Sul piano logico e sistematico, la ragione giustificatrice alla base di tale “divieto di inversione” (dirigenti di struttura oppure anche della avvocatura che assumano incarico di comandante della polizia locale) risiede nella constatazione che i medesimi – al netto di ogni caso particolare – non sono in via generale stati formati e reclutati per assumere e svolgere determinate specifiche funzioni di polizia giudiziaria, di sicurezza pubblica e stradale.

Farmacie rurali e libertà di trasferimento

Consiglio di Stato, sez. III, 13 marzo 2024, n. 2450

Farmacie – Farmacie rurali – Libertà di trasferimento del farmacista all’interno della zona di competenza – Autorizzazione

Tali considerazioni valgono a maggior ragione per i trasferimenti delle farmacie rurali, che sono destinate a far fronte a particolari esigenze dell’assistenza farmaceutica locale, che prescinde dall’ordinario criterio della popolazione.

Contratti pubblici e RTI verticale

Tar Lazio, Latina, sez. I, 15 marzo 2024, n. 219

Contratti pubblici – RTI verticale – Ratio – Anomalia offerte – Discrezionalità tecnica

Un raggruppamento di tipo verticale è quello in cui il mandatario realizza la prestazione di servizi principale ed i mandanti quelle secondarie, mentre quello orizzontale consiste in una riunione di operatori finalizzata a realizzare il medesimo tipo di prestazioni.

 Il r.t.i. verticale, infatti, è connotato dalla circostanza che l’impresa mandataria apporta competenze incentrate sulla prestazione prevalente, diverse da quelle delle mandanti, le quali possono avere competenze differenziate anche tra di loro, sicché nel raggruppamento di tipo verticale un’impresa, ordinariamente capace per la prestazione prevalente, si associa ad altre imprese provviste della capacità per le prestazioni secondarie scorporabili.

Nelle gare pubbliche, il giudizio circa l’anomalia o l’incongruità dell’offerta costituisce espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile dal giudice amministrativo solo in caso di macroscopica illogicità o erroneità fattuale, non potendo essere esteso ad un’autonoma verifica della congruità dell’offerta e delle singole voci. Stante la natura tecnico-discrezionale della funzione esercitata dalla stazione appaltante in sede di verifica dell’anomalia dell’offerta, sotto il profilo probatorio, al fine dimostrare la sussistenza del vizio della discrezionalità tecnica, è onere del ricorrente introdurre in giudizio elementi che sul piano sintomatico, in modo pregnante, evidente e decisivo rendano significativo il vizio di eccesso di potere in cui possa essere incorso l’organo deputato all’esame dell’anomalia.

Abuso edilizio su demanio o patrimonio pubblico

Tar Veneto, Venezia, sez. II, 13 marzo 2024, n.493

Abuso edilizio su suoli del demanio o del patrimonio dello Stato o di enti pubblici – Disciplina speciale – Responsabilità – Provvedimenti ripristinatori – Natura giuridica – Affidamento – Indennità di occupazione senza titolo

L’articolo 35 del d.P.R. 380/2001 dispone che “Qualora sia accertata la realizzazione, da parte di soggetti diversi da quelli di cui all’articolo 28, di interventi in assenza di permesso di costruire, ovvero in totale o parziale difformità dal medesimo, su suoli del demanio o del patrimonio dello Stato o di enti pubblici, il dirigente o il responsabile dell’ufficio, previa diffida non rinnovabile, ordina al responsabile dell’abuso la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi, dandone comunicazione all’ente proprietario del suolo”.

Con la locuzione “responsabile dell’abuso” utilizzata dal Testo unico dell’edilizia si intende non solo chi ha materialmente posto in essere la condotta contestata, ma anche colui che ha l’attuale disponibilità materiale del bene e quindi è in grado di provvedere alla sua demolizione, restaurando così l’ordine violato.

I provvedimenti ripristinatori di opere abusive hanno carattere reale e natura ripristinatoria e non sanzionatoria o punitiva; non prevedono, quindi, l’accertamento dell’imputabilità della trasgressione e hanno contenuto vincolato.

Per quanto riguarda gli abusi realizzati su proprietà pubblica, il richiamato articolo 35 del T.U. edilizia introduce una disciplina di particolare rigore, perché non prevede misure alternative alla demolizione. Il ripristino, infatti, ha carattere vincolato, rispetto al quale non può assumere rilevanza neanche l’approfondimento circa la concreta epoca di realizzazione dei manufatti e non è configurabile un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto.

L’abuso edilizio è un illecito permanente, rispetto al quale non è configurabile alcun affidamento meritevole di tutela. Inoltre, l’indennità di occupazione senza titolo non riguarda i profili edilizi dell’intervento e non è in alcun modo idonea a legittimare l’assenza di titolo, nemmeno sotto il profilo del rapporto concessorio.

Pianificazione urbanistica e danno da perdita di chance

Consiglio di Stato, sez. IV, 19 marzo 2024, n. 2647

Pianificazione urbanistica – Diniego di proroga del termine per il piano attuativo – Danno da perdita di chance – Nozione – Interpretazioni dottrinal-giurisprudenziali – Requisiti – Lucro cessante – Domanda risarcitoria – Assenza di prova

La chance è una figura di creazione giurisprudenziale che è stata elaborata al fine di venire incontro alle esigenze di tutela della parte, nel caso in cui la prova del fatto illecito rispetto al bene della vita finale sia sostanzialmente difficile, o impossibile. Tale figura è diversamente ricostruita in dottrina e in giurisprudenza.

Secondo la cd. concezione ontologica, la chance viene considerata un bene autonomo suscettibile di valutazione economica da intendersi come “perdita della possibilità di conseguire un risultato utile” e dunque rileva come danno emergente; secondo la cd. concezione eziologica, la chance viene considerata come “perdita di un risultato utile”, che si proietta nel futuro e dunque rileva come lucro cessante. La Corte di Cassazione con un recente orientamento (inaugurato a partire dalla decisione 9 marzo 2018, n. 5641; in termini anche Corte di Cassazione 28993/2019) ritiene che le esposte concezioni devono essere superate e che la chance di tipo patrimoniale si caratterizza per la presenza degli ordinari elementi costitutivi della responsabilità civile, ma con la rilevante particolarità rappresentata dal fatto che essa trae origine, in presenza di peculiari fattispecie, da quella che la Cassazione definisce “incertezza eventistica”.

Per aversi un danno da perdita di chance occorre, infatti, che siano presenti i seguenti elementi costitutivi: a) una condotta colpevole dell’agente; b) un evento di danno, che determina la lesione del bene giuridico protetto (danno ingiusto); c) un nesso di causalità tra la condotta e l’evento, ricostruita secondo la regola del “più probabile che non”; d) una o più conseguenze dannose risarcibili, patrimoniali e non, che devono essere derivanti in modo diretto e immediato dal fatto lesivo. La prova di tutti i suddetti elementi costituiti incombe in capo al danneggiato.

Abuso edilizio, ordine di demolizione e sequestro penale delle aree

Consiglio di Stato, sez. VII, 19 marzo 2024, n. 2643

Abuso edilizio – Ordinanza di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi – Sequestro penale – Rapporti

Poiché l’esercizio del potere repressivo di un abuso edilizio è autonomo rispetto ai poteri repressivi rimessi ad altre Autorità (e in particolare: all’Autorità giudiziaria penale), la circostanza che il manufatto abusivo sia oggetto di sequestro penale è irrilevante ai fini del corretto esercizio del potere sanzionatorio da parte dell’Autorità comunale, con il corollario che la pendenza del sequestro penale non rende illegittimo l’ordine di demolizione avente a oggetto lo stesso immobile.

Ai fini della legittimità di un ordine di demolizione, della sua eseguibilità e della validità dei conseguenti provvedimenti sanzionatori, è irrilevante la pendenza di un sequestro, poiché la misura cautelare reale non costituisce un impedimento assoluto all’attuazione dell’ingiunzione, in ragione della possibilità, per il destinatario dell’ordine, di ottenere il dissequestro del bene ai sensi dell’art. 85 disposizione di attuazione del codice di procedura penale.

Una cosa è, sul versante penalistico e processualpenalistico, l’ordine di distruzione del manufatto abusivo, a cura e a spese dell’imputato, impartito dal giudice penale quale conseguenza obbligata derivante dalla sentenza di condanna, e altro è, sul versante amministrativo e delle procedure d’infrazione urbanistico-edilizie, l’ordine di rimozione, ovvero di demolizione, emanato dal dirigente comunale competente ai sensi dell’art. 33 del d.P.R. n. 380/2001.

La sottoposizione di un manufatto abusivo a sequestro penale non costituisce impedimento assoluto a ottemperare a un ordine di demolizione, né integra causa di forza maggiore impeditiva della demolizione, dato che sussiste la possibilità di ottenere il dissequestro dell’immobile al fine di ottemperare all’ingiunzione di demolizione, alla luce della consolidata giurisprudenza in materia di provvedimenti di repressione dell’abusivismo edilizio, e dei loro rapporti con il sequestro penale.

Il sequestro penale dell’immobile non influenza la legittimità dell’ordinanza di rimessione in pristino. Il contemperamento con le esigenze della difesa si realizza ritenendo che il termine assegnato dall’ordinanza per la demolizione o la rimessione in pristino non decorre sin quando l’immobile rimane sotto sequestro, restando all’autonoma iniziativa della difesa, ovvero della magistratura inquirente attivare gli strumenti che al dissequestro possono condurre.