Ambiente

Impianti di smaltimento e recupero dei rifiuti e autorizzazione unica ambientale

Tar Campania, Napoli, sez. V, 30 gennaio 2025, n. 812

RSU – Installazione di nuovi impianti di smaltimento e recupero – Autorizzazione unica ambientale – Conferenza di servizi – Pareri discordanti – Bilanciamento – Onere motivazionale – Legittimazione al ricorso – Concessione di acque minerali – Requisito della vicinitas

È illegittimo il provvedimento di autorizzazione unica di cui all’art. 208 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (codice dell’ambiente) per nuovi impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti qualora difetti ogni riferimento ai contenuti dei pareri negativi resi dalle amministrazioni partecipanti alla conferenza di servizi di cui al comma 3 e non siano spiegate le ragioni della prevalenza riconosciuta ai pareri favorevoli. Difatti, in presenza di pareri discordanti resi nella conferenza di servizi, l’amministrazione procedente è tenuta ad operare il bilanciamento tra quelli negativi e quelli positivi, stabilendo a quali dare la prevalenza, fermo restando che, in caso di rilascio dell’autorizzazione, la prevalenza dei pareri favorevoli può considerarsi in re ipsa solo se, in sede di valutazione dei pareri negativi, le ragioni poste a fondamento di tali pareri risultino non fondate.

In caso di impugnazione dell’autorizzazione unica per nuovi impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti ai sensi dell’art. 208 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (codice dell’ambiente), sussiste la legittimazione al ricorso degli enti partecipanti alla conferenza di servizi titolari di interessi sensibili, tra cui rientrano quelli in materia urbanistico – paesaggistica, che abbiano espresso formale e motivato dissenso rispetto alla determinazione finale.

La legittimazione ad agire degli enti partecipanti alla conferenza di servizi nel procedimento di autorizzazione unica di cui all’art. 208 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (codice dell’ambiente) per nuovi impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti non è esclusa dalla mancata opposizione espressa nella conferenza di servizi ai sensi dell’articolo 14 quinquies, della legge 7 agosto 1990, n. 241, in quanto il mancato esercizio di questa facoltà non preclude la tutela giurisdizionale.

La realizzazione di un impianto di smaltimento di rifiuti speciali in posizione prossima a una concessione di acque minerali può determinare una lesione degli interessi del titolare di essa, quantomeno sotto il profilo dell’immagine e della reputazione dell’operatore economico, ravvisandosi in tale ipotesi sia la legittimazione al ricorso in ragione della vicinitas, sia l’interesse a ricorrere correlato ad uno specifico pregiudizio che può essere desunto dall’insieme delle allegazioni racchiuse nel ricorso.

I rifiuti da fanghi derivanti dal trattamento di acque reflue

Consiglio di Stato, sez. IV, 10 febbraio 2025, n. 1064

RSU – Nozione – Fanghi derivanti dal trattamento di acque reflue

I fanghi prodotti nell’ambito dell’attività di depurazione dei reflui possono essere sottoposti alla disciplina dei rifiuti solo una volta completato il processo di trattamento, ovvero se il produttore abbia necessità di disfarsene, sì che il recupero dei fanghi presso impianti di depurazione più grandi e avanzati deve ritenersi consentito.

La nozione di rifiuto è definita dall’art. 183, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 152 del 2006 il quale stabilisce che come tale deve intendersi qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi; la definizione fornita da tale norma si basa sul dato funzionale, con la conseguenza che, per stabilire se una determinata sostanza o un determinato oggetto siano da considerare rifiuto, non occorre individuarne gli elementi intrinseci che ne determinano la qualificazione, ma occorre piuttosto far riferimento appunto alla sua funzione, essendo rifiuto tutto ciò da cui il detentore non tragga alcuna utilità e di cui, quindi, si sia disfatto ovvero intenda disfarsi o sia obbligato a farlo; si deve pertanto ritenere, in tale quadro, che un bene o una sostanza (soprattutto se privi di apprezzabile valore economico) debbano essere considerati rifiuto non solo quando questi vengano abbandonati dal detentore, ma anche quando questi li depositi nell’ambiente assegnando ad essi una funzione che non è loro propria senza ricavarne alcuna apprezzabile utilità all’evidente fine quindi di sottrarsi dall’obbligo di recupero o smaltimento.

La Corte di Giustizia UE ha poi precisato che l’espressione “disfarsi” (utilizzata anche nella definizione di “rifiuto” fornita dalla direttiva 2006/12/CE) deve essere intesa in senso non restrittivo dovendosi tener conto dell’obiettivo di tale direttiva che, ai sensi del suo considerando 2, consiste nella tutela della salute umana e dell’ambiente (cfr. Corte di Giustizia UE, sez. I, 12 dicembre 2013, cause riunite C-241/12 e C-242/12, par 38). Rilevante nella ricostruzione del quadro normativo è l’art. 127 del d.lgs. n.152 del 2006 (Fanghi derivanti dal trattamento delle acque reflue), secondo cui “i fanghi derivanti dal trattamento delle acque reflue sono sottoposti alla disciplina dei rifiuti, ove applicabile e comunque solo alla fine del complessivo processo di trattamento effettuato nell’impianto di depurazione”. L’espressione “comunque solo” è stata inserita dall’articolo 9, comma 1, del d.l. del 14 aprile 2023, n. 39, convertito con modificazioni dalla legge 13 giugno 2023, n. 68, e rafforza sostanzialmente quanto poteva già desumersi prima del citato intervento normativo ovvero che la qualifica di rifiuto può essere attribuita ai fanghi solo al termine del complessivo processo di trattamento.

Autorizzazione integrata ambientale, conferenza dei servizi e legittimazione dei Comuni

Consiglio di Stato, sez. VI, 13 gennaio 2025, n. 215

AIA – Conferenza di servizi – Interessi rilevanti – Legittimazione alla partecipazione – Comune

L’art. 29 quater del D. L.vo n. 152/2006 impone, all’autorità procedente, di invitare alla conferenza di servizi solo i soggetti titolari di competenze in materia ambientale e il Comune non rientra tra queste ultime.

La partecipazione al procedimento ed alla conferenza di servizi per il rilascio dell’autorizzazione integrata ambientale è prevista esclusivamente nei confronti dei soggetti direttamente interessati al provvedimento da emanare; gli altri soggetti istituzionali o meno, che non hanno un interesse diretto nel procedimento in corso, possono essere facoltativamente invitati, senza che gli stessi possano incidere sulle decisioni da trattare.

Nell’ambito di una conferenza di servizi per il rilascio di un’autorizzazione integrata ambientale (a.i.a.), avente a oggetto un impianto già esistente per il trattamento di rifiuti pericolosi e per la rigenerazione di olii usati, in un caso nel quale le Amministrazioni istituzionalmente preposte alla tutela della salute hanno espresso parere positivo al rilascio del suddetto titolo, per di più basato su una articolata e adeguata motivazione, non sussiste prevalenza del parere contrario del Comune, le cui contestazioni poggiano, peraltro, su motivazioni di carattere sostanzialmente urbanistico, in quanto trattasi di Amministrazione non specificamente preposta alla tutela di interessi paesistico-ambientali o della salute (con possibile devoluzione del caso alla Presidenza del Consiglio): la conferenza di servizi, infatti, è retta da un criterio maggioritario e, comunque, non conosce poteri di veto in capo alle singole Amministrazioni partecipanti.

AIA e prerogative sindacali

Tar Lazio, Roma, sez. I quater, 7 ottobre 2024, n. 17214

AIA – Competenze sindacali – Procedimento – Conferenza di servizi – Dissenso – Onere motivazionale

Con specifico riferimento all’AIA, l’art.29 quater, comma 6, d.lgs. n. 152/2006 prevede che il Sindaco partecipi alla Conferenza di servizi di cui al precedente comma 5 per rendere «le prescrizioni […] di cui agli articoli 216 e 217 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265», ossia in materia di salubrità dei luoghi interessati da attività industriale astrattamente idonei a ricadere tra i c.d. interessi sensibili.

Riguardo al procedimento AIA, le amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei cittadini cui è riservata l’opposizione in sede di Consiglio dei ministri ai sensi dell’art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990, devono identificarsi — anche alla luce del combinato disposto degli artt. 14- quinquies e 17, comma 2, della stessa legge n. 241 del 1990 — in quelle amministrazioni alle quali norme speciali attribuiscono una competenza diretta, prevalentemente di natura tecnico-scientifica, e ordinaria ad esprimersi attraverso pareri o atti di assenso comunque denominati a tutela dei suddetti interessi così detti ‘sensibili’, e tale attribuzione non si rinviene, di regola e in linea generale, tra le competenze in campo sanitario demandate al Sindaco e al Comune dal testo unico delle leggi sanitarie di cui al r.d. n. 1265 del 1934.

Pertanto, il predetto art. 29 quater, comma 5 nel richiamare specificamente le “prescrizioni” del sindaco di cui agli art. 216 e 217 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265 esclude la possibilità che in sede di Conferenza di servizi, per il rilascio dell’AIA, il sindaco possa esprimersi negando l’attivazione, ciò all’evidente fine di evitare che la decisione della Conferenza possa essere vincolata automaticamente per effetto del dissenso espresso dal sindaco ai sensi dei predetti art. 216 e 217. Ed infatti il richiamo dell’art. 29 quater, comma 5 del d.lgs. n. 152 del 2006 alle “prescrizioni” ex art. 216 e 217 del regio decreto 27 luglio 1934 assume la funzione di consentire al sindaco di indicare le “prescrizioni” o al limite di esprimere un dissenso che, tuttavia, al pari degli altri pareri o atti di assenso comunque denominati nell’ambito della Conferenza di servizi, nella specie di tipo decisorio, possono essere superati dalla decisione conclusiva motivata adottata dall’amministrazione procedente (che può anche discostarsi dagli atti di dissenso acquisiti o espressi dalle amministrazioni partecipanti).

Peraltro, il dissenso espresso in sede di Conferenza di servizi ai sensi dell’art. 14 quater della legge n. 241 del 1990 deve rispondere ai principi di cui all’art. 97 della Cost., non potendosi limitare ad una sterile opposizione al progetto, dovendo essere costruttivo e congruamente motivato.

Trasferimento funzioni in materia di VIA

Consiglio di Stato, sez. IV, 30 agosto 2024, n. 7314

Ambiente – V.I.A. – Verifica di assoggettabilità – Conferimento da parte delle Regioni ai Comuni – Legittimità

È legittimo il conferimento da parte delle Regioni ai Comuni di funzioni in materia di verifica di assoggettabilità a V.I.A. (c.d. screening), ai sensi dell’art. 7-bis, comma 8, del d.lgs. n. 152 del 3 aprile 2006 (codice dell’ambiente), che espressamente la prevede per le funzioni in materia di V.I.A., in quanto lo screening partecipa della medesima natura della V.I.A. ed è disciplinato nell’ambito del titolo III della parte I del codice dell’ambiente, complessivamente dedicato alla “valutazione di impatto ambientale”.

Autorizzazione unica ambientale e sopravvenienze

Consiglio di Stato, sez. IV, 30 luglio 2024, n. 6848

Procedimento amministrativo – Autorizzazione amministrativa – Autorizzazione unica ambientale – Sopravvenienze di fatto e di diritto – Tempus regit actum – Provvedimento amministrativo – Concessioni amministrative – Natura giuridica – Gare pubbliche

Le sopravvenienze, sia di fatto che di diritto, rilevano e devono essere tenute in debito conto dall’amministrazione procedente durante la fase procedimentale che va dalla presentazione dell’istanza fino all’emanazione del provvedimento conclusivo; è lo stesso principio del tempus regit actum ad imporre tale soluzione, in quanto al provvedimento amministrativo si applica la normativa in vigore al momento della sua adozione. Pertanto, in materia di autorizzazione unica ambientale, non possono residuare dubbi sull’applicabilità della normativa entrata in vigore addirittura prima della presentazione della istanza che ha comportato l’apertura del procedimento.

Al procedimento amministrativo volto al rilascio dell’autorizzazione unica ambientale chiesta dal concessionario per la realizzazione e gestione di un’opera pubblica non si applica la cornice normativa vigente al momento della stipula del contratto di concessione, bensì quella vigente al momento dell’adozione del provvedimento finale. Difatti, il procedimento amministrativo mantiene una sua logica autonomia dal contratto stipulato, rappresentando una procedura volta al rilascio di un provvedimento autorizzativo necessario per la concreta realizzazione di un’opera.

Il principio di insensibilità delle gare pubbliche alle sopravvenienze normative successive all’approvazione del bando non è un principio di ordine assoluto e inderogabile, ma relativo, in quanto ammette specifiche e particolari deroghe, quando le stesse si riferiscano ad uno specifico procedimento di pubblica selezione ed il legislatore ragionevolmente ravvisi la necessità di un tale intervento.

Il contratto di concessione è un contratto di durata e, come tale, non consuma i suoi effetti uno actu, pertanto, trovano applicazione le normative sopravvenute che incidono sul rapporto contrattuale in base al principio tempus regit actum. Ne consegue che è legittima la sospensione degli effetti del contratto di concessione per la progettazione esecutiva, realizzazione e gestione dell’opera pubblica per effetto di una normativa sopravvenuta che non abbia inciso sulla validità del contratto, ma sul rapporto.

Abbondono di rifiuti e proprietà dell’area

Tar Toscana, Firenze, sez. II, 12 marzo 2024, n. 285

RSU – Abbandono – Onere accertativo e probatorio della corresponsabilità in capo al Comune – Disponibilità del bene

Ai sensi dell’art. 192, comma 3, D. Lgs. n. 152/2006, il Comune deve provvedere ad uno specifico accertamento dell’eventuale corresponsabilità del proprietario dell’area, volta ad appurare l’infrazione, anche da parte di quest’ultimo, “a titolo di dolo o colpa”.

Tanto è predicabile laddove il proprietario (a parte i casi di connivenza o complicità negli illeciti) si disinteressi del proprio bene e resti inerte, senza affrontare concretamente la situazione o la affronti con misure palesemente inadeguate, omettendo accorgimenti e cautele che l’ordinaria diligenza impone per realizzare un’efficace custodia e protezione dell’area.

Nei casi in cui il proprietario dell’area inquinata non abbia nemmeno la materiale disponibilità del bene interessato dall’abbandono dei rifiuti, è ancor più evidente l’onere dell’Amministrazione di dimostrarne la corresponsabilità, considerato che prima di ordinare la rimozione dei rifiuti abbandonati ed il ripristino dello stato dei luoghi, il Comune deve accertare l’elemento soggettivo dolo o colpa in capo al proprietario non responsabile dello sversamento di rifiuti.

Abbandono rifiuti e responsabilità

Tar Sicilia, Catania, sez. I, 26 febbraio 2024, n. 688

RSU – Abbandono – Responsabilità solidale – Elemento soggettivo – Misure di protezione e prevenzione – Art. 192 D. Lgs. n. 152/2006 – Criteri interpretativi

In forza dell’art. 192 TUA, alla rimozione dei rifiuti devono provvedere non solo i responsabili dell’abbandono di rifiuti ma anche “in solido” (e quindi indipendentemente dall’individuazione dei primi) il proprietario e i titolari di diritti reali o personali di godimento sull’area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa. La colpa dei predetti soggetti, in quanto qualificati dal loro rapporto proprietario o di titolarità di diritti reali o personali di godimento rispetto all’area, non può riguardare l’attività altrui, invece dolosa e criminosa, di abbandono dei rifiuti (rispetto alla quale i predetti soggetti non si differenziano dalla generalità dei consociati) e deve, quindi, invece, riguardare la mancanza di un’adeguata cura nella tenuta del terreno del quale hanno la titolarità, o comunque la disponibilità, evidenziata proprio dall’abbandono dei rifiuti.

Il termovalorizzatore di Roma Capitale

Consiglio di Stato, sez. IV, 9 febbraio 2024, n. 1349

Rifiuti – Piano di smaltimento rifiuti di Roma Capitale – VAS – Realizzazione termovalorizzatore – Diritto dell’Unione europea e legislazione degli Stati membri – Principio della gerarchia dei rifiuti – Ratio – Discrezionalità

Abbandono di rifiuti e principio di precauzione

Consiglio di Stato, sez. IV, 2 febbraio 2024, n. 1110

RSU – Abbandono – Responsabilità – Principio di precauzione e di prevenzione – Misure di prevenzione e di messa in sicurezza di emergenza – Gestione d’affari altrui – Presupposti – Gestione nomine proprio o con spendita del nome – Principio di proporzionalità – Teoria dei tre gradini – Cessione della proprietà del sito – Traslazione dell’obbligo di bonifica – Acque emunte – Classificazione

Le misure di messa in sicurezza di emergenza, così come le misure di prevenzione, non hanno analoga natura sanzionatoria, ma preventiva e cautelare, trovando fondamento nel principio di precauzione e nel correlato principio dell’azione preventiva, e, in quanto tali, possono gravare sul proprietario (o detentore del sito da cui possano scaturire i danni all’ambiente) solo perché egli è tale, senza necessità di accertarne il dolo o la colpa.

Il proprietario del terreno sul quale sono depositate sostanze inquinanti, che non sia responsabile dell’inquinamento (c.d. proprietario incolpevole) e che non sia stato negligente nell’attivarsi con le segnalazioni e le denunce imposte dalla legge, è tenuto solo ad adottare le misure di prevenzione, mentre gli interventi di riparazione, messa in sicurezza definitiva, bonifica e ripristino gravano sul responsabile della contaminazione, ossia su colui al quale – per una sua condotta commissiva od omissiva – sia imputabile l’inquinamento; la P.A. competente, qualora il responsabile non sia individuabile o non provveda agli adempimenti dovuti, può adottare d’ufficio gli accorgimenti necessari e, se del caso, recuperare le spese sostenute attraverso un’azione di rivalsa verso il proprietario, il quale risponde nei soli limiti del valore di mercato del sito, dopo l’esecuzione degli interventi medesimi.

Ne discende che il proprietario non responsabile dell’inquinamento – nell’accezione prima chiarita – è tenuto, ai sensi dell’ art. 245, comma 2, d.lgs. n. 152 del 2006 ad adottare le misure di prevenzione di cui all’art. 240, comma 1, lett. i), d.lgs. n. 152 del 2006 (ovvero “le iniziative per contrastare un evento, un atto o un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia”) e le misure di messa in sicurezza d’emergenza, non anche la messa in sicurezza definitiva, né gli interventi di bonifica e di ripristino ambientale.

Tali consolidati principi non possono, nondimeno, trovare applicazione nel caso in cui il proprietario, ancorché non responsabile, ha attivato volontariamente gli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale. In tale caso, infatti, la fonte dell’obbligazione del proprietario incolpevole va rinvenuta nell’istituto della gestione di affari non rappresentativa.

Secondo l’art. 2028 c.c. colui che, scientemente e senza esservi tenuto, assume la gestione di un affare altrui ha l’obbligo di proseguirla fino a quando l’interessato possa provvedervi da sé stesso.

I presupposti necessari perché si configuri una gestione di affari altrui sono tradizionalmente individuati: a) nella c.d. absentia domini, dedotta dall’art. 2028 c.c. allorché fa riferimento ad un dominus che non è in grado di provvedere ai suoi interessi; b) nell’altruità dell’affare, dato l’esplicito riferimento normativo alla gestione di un affare altrui; c) nella spontaneità dell’intervento del gestore che, infatti, ai sensi dell’art. 2028 c.c., deve agire “senza essere obbligato”; d) nella consapevolezza dell’alienità dell’affare, desumibile dall’avverbio “scientemente”. Particolarmente discusso è, poi, il c.d. requisito dell’utiliter coeptum che, data la formulazione dell’art. 2031 c.c., è da una parte della dottrina considerato condicio iuris di efficacia di una fattispecie già strutturalmente perfetta e, da altra parte, ritenuto presupposto dei soli effetti a carico del dominus.

Il requisito della c.d. absentia domini deve essere inteso in senso ampio, in modo da comprendervi il caso in cui l’interessato, pur presente fisicamente nei luoghi ove la gestione è eseguita, non sia comunque in grado di presidiare all’amministrazione dei propri interessi esistenziali. A tal riguardo, non rileva che vi sia una condizione di assoluto impedimento dell’interessato alla gestione dei propri affari, ovvero che sussista una impossibilità materiale rispetto alla cura di questi, ritenendosi soddisfatto l’anzidetto requisito là dove il dominus non abbia manifestato, espressamente o tacitamente, il divieto a che altri si ingerisca nella cura dei propri affari.

Quanto agli effetti della gestione, deve essere distinta la fattispecie in cui il gestore ha agito nomine proprio,da quella in cui spende il nome dell’interessato (art. 2031, comma 1, c.c.). Nel primo caso (c.d. gestione rappresentativa fondata sulla legge e condizionata dal presupposto dell’utiliter coeptum), gli effetti della gestione sono proiettati recta via nella sfera giuridico-patrimoniale dell’interessato, il quale deve pertanto adempiere le obbligazioni assunte in suo nome. Nel secondo caso, valgono le regole in tema di mandato senza procura, di guisa che l’interessato dovrà tenere indenne il gestore delle obbligazioni assunte in nome proprio e rimborsargli le spese necessarie o utili con gli interessi dal giorno in cui sono state fatte. Il gestore è tenuto a continuare la gestione e a completarla finché l’interessato non sia in grado di provvedervi autonomamente (art. 2028, comma 1, c.c.).

Nella negotiorum gestio, si ravvisano i tratti distintivi dell’obbligazione – che nasce per effetto della libera determinazione del gerente – senza obbligo primario di prestazione, da cui discende la eventuale responsabilità ex art. 1218 c.c., quale conseguenza della c.d. mala gestio.

Il principio di proporzionalità, di derivazione europea, impone all’amministrazione di adottare un provvedimento non eccedente quanto è opportuno e necessario per conseguire lo scopo prefissato. Alla luce di tale principio, nel caso in cui l’azione amministrativa coinvolga interessi diversi, è doverosa una adeguata ponderazione delle contrapposte esigenze, al fine di trovare la soluzione che comporti il minor sacrificio possibile: in questo senso, l’esercizio del potere in esame rileva quale elemento sintomatico della correttezza dell’esercizio del potere discrezionale in relazione all’effettivo bilanciamento degli interessi.

Inoltre, il principio di proporzionalità postula un giudizio di valutazione che si articola in tre passaggi successivi, che prevedono l’utilizzo di altrettanti criteri di valutazione (c.d. «teoria dei tre gradini»):

– l’idoneità della decisione a raggiungere lo scopo, intesa come rapporto fra mezzo utilizzato e fine da raggiungere. Secondo questo primo indice di valutazione, la soluzione prospettata dalla pubblica amministrazione dev’essere effettivamente idonea a realizzare gli obiettivi legittimi di interesse pubblico, o la tutela di diritti fondamentali, per come dichiarato dalla stessa amministrazione;

– la sua necessarietà, intesa come inesistenza di alternative più miti per il raggiungimento dello stesso risultato. In base a tale criterio, la scelta amministrativa deve necessariamente ricadere su quella che determini il sacrificio minore per i soggetti che ricevono un pregiudizio dalla decisione: in questo secondo passaggio si ha, dunque, un quid pluris rispetto al primo, consistente nella valutazione delle alternative plausibili per il raggiungimento degli stessi interessi pubblici con misure meno gravose;

– l’adeguatezza o proporzionalità in senso stretto, intesa come tollerabilità della decisione da parte del suo destinatario. In virtù di quest’ultimo indice valutativo, l’amministrazione deve effettuare una ponderazione armonizzata e bilanciata degli interessi, onde verificare se la misura sia «non eccessiva» rispetto all’obiettivo da perseguire.

La proporzionalità non deve essere considerata come un canone rigido e immodificabile, ma si configura quale regola che implica la flessibilità dell’azione amministrativa e come concreto bilanciamento tra interessi potenzialmente antagonisti: il bilanciamento tra interessi potenzialmente incompatibili è una vicenda di allontanamento più o meno intenso da quel nucleo di massima protezione e che dipende dalle relazioni di prevalenza o subordinazione che, all’interno della ponderazione, si stabiliscono con i principi concorrenti.

La cessione della proprietà del sito non determina una vicenda estintiva, né a livello soggettivo, né a livello oggettivo, dell’obbligazione volontariamente assunta, venendo nel caso in esame in rilievo un’obbligazione di fonte legale, discendente da un fatto/atto idoneo, ai sensi dell’art. 1173, a generare la nascita di un’obbligazione in capo al soggetto che ha spontaneamente intrapreso la gestione dell’attività di bonifica. In tale direzione depone anche la considerazione che, anche nel caso di cessione di azienda, l’art. 2560, comma 1, c.c. espressamente dispone che, dopo la cessione, il cedente rimane ex lege titolare degli obblighi (e, più in generale, delle posizioni di responsabilità) rivenienti dalla gestione del ramo di azienda precedente alla cessione.

La fattispecie della traslazione dell’obbligo di bonifica a carico del successore si verifica, invece, nel diverso caso della successione a titolo universale, ovvero quando si sia verificata l’estinzione soggettiva del cedente (si pensi all’incorporazione): in tali ipotesi, la responsabilità per l’inquinamento e, quindi, il connesso dovere di bonifica passano in capo al successore in universum jus.

Il principio di precauzione consiste, come noto, in un criterio di gestione del rischio in condizioni di incertezza scientifica. Esso risponde, dunque, alla necessità di fronteggiare e/o gestire i c.d. “rischi incerti”. Muovendo da tale preliminare considerazione, è possibile coglierne il principale tratto distintivo rispetto all’idea di “prevenzione”. Mentre, infatti, la prevenzione può entrare in gioco solo a fronte di “rischi certi”, ossia in presenza di rischi scientificamente accertati e dimostrabili, ovverosia in presenza di rischi noti, misurabili e controllabili, la precauzione, al contrario, trova il proprio campo di applicazione allorché un determinato rischio risulti ancora caratterizzato da margini più o meno ampi di incertezza scientifica circa le sue cause o i suoi effetti.

Il fondamento concettuale della logica precauzionale può essere ricondotto al principio del cosiddetto maximin, in base al quale, quando si tratta di assumere una decisione in condizioni di incertezza, le scelte devono essere valutate tenendo conto del peggior scenario possibile in termini di possibili conseguenze.

Ne discende che, in nome dell’idea di precauzione, l’intervento preventivo non può attendere l’inconfutabile prova scientifica degli effetti dannosi, ma deve essere predisposto sulla base di attendibili valutazioni di semplice possibilità/probabilità del rischio, sulla base delle conoscenze scientifiche e tecniche “attualmente” e “progressivamente” disponibili.

Le acque emunte, di regola, devono essere ricondotte all’interno della categoria dei rifiuti liquidi, non potendosi in linea di principio ritenere che la norma di cui all’art. 243, d.lgs. 152/06, consenta una equiparazione tout court tra le acque di falda emunte nell’ambito di interventi di bonifica di siti inquinati e le acque reflue industriali. L’individuazione del regime normativo concretamente applicabile non può non tenere conto della particolare natura dell’oggetto dell’attività posta in essere.