Titoli edilizi e termini di impugnazione
Consiglio di Stato, sez. VI, 7 febbraio 2024, n. 1241
Titolo edilizio ordinario e in sanatoria – Impugnazione – Termini – Autorizzazione paesaggistica – Enti delegatari – Separazione organizzativa – Incompatibilità soggettiva – Compatibilità paesaggistica
In conformità alla natura ed alla modalità d’esecuzione delle opere, occorre tenere separato il regime d’impugnazione del titolo edilizio “ordinario” da quello applicabile al titolo edilizio “in sanatoria”. Nel primo caso, il termine di decadenza decorre dal completamento dei lavori, cioè dal momento in cui sia materialmente apprezzabile la reale portata dell’intervento in precedenza assentito. Nel secondo caso, il termine decorre dalla data in cui si abbia conoscenza che, per una determinata opera abusiva già esistente, è stata rilasciata la concessione edilizia in sanatoria. Quindi, il termine d’impugnazione di un titolo in sanatoria decorre dal momento in cui si conosca la circostanza del rilascio del medesimo atto per una determinata opera già esistente, la cui conoscenza deve essere dimostrata in giudizio al fine di far valere la tardività dell’impugnazione. Il destinatario di un provvedimento di sanatoria edilizia (che costituisce, pur sempre, una peculiarità dell’ordinamento, da tenere distinta dall’ipotesi del rilascio ordinario del titolo) non può beneficiare anche della decorrenza dalla pubblicazione all’albo pretorio del termine di impugnativa del provvedimento a lui favorevole; beneficio di cui neppure gode chi abbia (secondo l’ordinamento) ottenuto il rilascio di un provvedimento autorizzatorio prima dell’inizio dei lavori.
Ai sensi dell’art. 146, comma 6 D. Lgs. n. 42/2004, gli enti delegatari (come il Comune) del potere di autorizzazione paesaggistica debbono disporre «di strutture in grado di assicurare un adeguato livello di competenze tecnico-scientifiche nonché di garantire la differenziazione tra attività di tutela paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in materia urbanistico-edilizia». La doverosa distinzione organizzativa, infatti, riflette la distinzione sostanziale tra la funzione di tutela del paesaggio e quella di governo del territorio o urbanistica: è una distinzione che ha base nell’art. 9 Cost. (e oggi è confermata dall’art. 117, comma 2, lett. s), Cost.): la separazione organizzativa a livello comunale è voluta dalla legge ad adeguata prevenzione della possibile commistione in capo al Comune delle due competenze e a evitare che la valutazione urbanistica possa incidere sull’autonomia di quella, superiore e delegata, paesaggistica (non a caso l’art. 146, comma 4, prevede che « l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio »; cfr. anche art. 45, comma 2; art. 143, comma 4, lett. a), comma 5 e comma 9; art. 145, spec. commi 3, 4 e 5; art. 146, commi 5 e 6; art. 155, comma 2-bis; art. 159, comma 6): la quale ultima deve essere organizzativamente posta, nel Comune, in condizione di non subire incidenze gerarchiche o condizionamenti di sorta.
In relazione alla differenziazione imposta dall’art. 146, comma 6, d.lg. n. 42/2004, va assicurata sia la sussistenza di un adeguato livello tecnico scientifico sia la separazione organizzativa suddetta. Peraltro, anche a fronte delle consolidate difficoltà organizzative che hanno portato, ad esempio, all’unione dei comuni per lo svolgimento delle relative funzioni, in assenza della necessaria formalizzazione di una incompatibilità soggettiva, ciò che deve essere assicurato è la sussistenza di un adeguato livello tecnico scientifico nonché la differenziazione oggettiva di valutazione e della relativa attività.
E’ evidente che tale differenziazione sia meglio perseguibile in caso di divaricazione soggettiva dei soggetti titolari delle rispettive competenze; tuttavia, in assenza di una specifica regola di incompatibilità soggettiva si impone un’esegesi conforme all’autonomia ed alle carenze organizzative dei Comuni, salva ovviamente, a valle, l’attenta analisi delle censure dedotte avverso il provvedimento conclusivo e l’iter istruttorio, al fine di verificare la sussistenza nella specie delle adeguate cognizioni, della autonoma valutazione e della specifica esplicazione delle ragioni sottese alla decisione amministrativa, che la giurisprudenza impone sia per l’accoglimento del progetto, che per il diniego.
Invero, in linea generale, in assenza di una specifica tipologia di incompatibilità, prevale l’autonomia delle attività e delle valutazioni, garantita dal diverso iter procedimentale, nonché dai diversi presupposti oggetto di esame. Pertanto, a fronte di una valutazione basata su tali differenti presupposti (per un verso urbanistico edilizi e per l’altro di compatibilità rispetto al vincolo paesaggistico esistente) nonché di iter presso organi anche consultivi diversi, ed in assenza di specifici elementi da cui desumere una specifica incompatibilità, non è possibile inferire automaticamente che la stessa persona non possa partecipare, laddove ne abbia le competenze, a differenti valutazioni. È pur vero che proprio la diversità di valutazioni renderebbe opportuno, nell’interesse della stessa amministrazione, la divaricazione soggettiva dei funzionari responsabili; peraltro, la scarsità di risorse degli enti locali, specie di piccole dimensioni, rende di non facile raggiungimento tale auspicabile obiettivo; anche su tali considerazioni si fonda, presumibilmente, la stessa formulazione della norma invocata, che parla di garantire la differenziazione di attività. Ciò non toglie che il sindacato delle diverse valutazioni debba essere svolto con i dovuti specifici approfondimenti, pur nell’identità del progetto, distinguendo i presupposti di ammissibilità edilizia da quelli, ben distinti, della compatibilità col vincolo paesaggistico.
Il rinvio ai concetti di volumetria e superficie utile, di cui all’art. 167, comma 4, d.lg. n. 42/2004, per cui l’autorità preposta alla gestione del vincolo nei casi indicati accerta la compatibilità paesaggistica, deve interpretarsi nel senso di un rinvio, in via primaria, al significato tecnico-giuridico che tali concetti hanno in materia urbanistico-edilizia, in quanto si tratta di nozioni tecniche non specificate dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, bensì dalla normativa urbanistico-edilizia. In tema di compatibilità paesaggistica, anche ai fini di certezza del diritto, non può ritenersi ammissibile che, in ambito paesaggistico ex art. 167 d.lg. n. 42/2004, il concetto di superficie utile possa avere un significato diverso e più ampio rispetto a quello utilizzato nella materia urbanistica ed edilizia, tale da ricomprendervi sempre e comunque superfici calpestabili esterne. Ad esempio, il mero ampliamento di superfici esterne accessorie, qualificabili come balconi, ballatoi o terrazze, non costituisce da sé solo motivo ostativo all’avvio del procedimento volto al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica postuma, atteso che l’art. 167 del d. lgs. 22 gennaio 2004 n. 42 annovera — tra le cause ostative alla sanatoria — la creazione delle sole superfici utili e non anche delle superfici accessorie.