Varie

Piani di assistenza individuale

Tar Sicilia, Palermo, sez. III, 5 giugno 2024, n. 1912

Piani individualizzati – Piani di Assistenza Individuale per persone disabili – Contenuti necessari – Legittimità

L’art. 14, legge 08.11.2000 n. 328, individua al comma 2 il contenuto tipico dei Piani di Assistenza Individuale per persone disabili, stabilendo che “Nell’ambito delle risorse disponibili in base ai piani di cui agli articoli 18 e 19, il progetto individuale comprende, oltre alla valutazione diagnostico-funzionale e al progetto di funzionamento, le prestazioni di cura e riabilitazione a carico del S.S.N., il piano educativo individualizzato a cura delle istituzioni scolastiche, i servizi alla persona a cui provvede il Comune in forma diretta o accreditata, con particolare riferimento al recupero e all’integrazione sociale, nonché le misure economiche necessarie per il superamento di condizioni di povertà, emarginazione ed esclusione sociale. Nel progetto individuale, sono definiti le potenzialità e gli eventuali sostegni per il nucleo familiare”. Di talché, deve essere giudicato illegittimo quel Piano individualizzato che non preveda nel dettaglio i doverosi interventi socio-assistenziali per il recupero e l’integrazione della persona disabile.

Organo di revisione contabile e indipendenza

Consiglio di Stato, sez. VI, 23 maggio 2024, n. 4619

Organo di revisione – Indipendenza – Revoca – Condizioni – Accertamento inadempienza – Collaborazione con l’organo consiliare

Ai sensi dell’art 235 Tuel, l’inadempienza quale presupposto della revoca è integrata dal mancato adempimento ai compiti a cui l’organo di revisione è istituzionalmente preposto ai sensi dell’art. 239 Tuel. Solo un’oggettiva e grave violazione dei compiti sopra indicati può giustificare il provvedimento di revoca, a garanzia dell’imparzialità e dell’indipendenza dell’organo di controllo che non è suscettibile di essere revocato ad nutum per contrasto con le scelte dell’amministrazione controllata. Tra le inadempienze rilevanti, il legislatore ha tipizzato la mancata presentazione della relazione alla proposta di deliberazione consiliare del rendiconto entro il termine previsto dall’articolo 239, comma 1, lettera d) che rappresenta l’unica fattispecie di revoca obbligatoria, in ragione della particolare gravità della violazione.

Non può fondare un’autonoma fattispecie di revoca la violazione dei doveri di diligenza qualificata che il revisore è tenuto ad osservare ai sensi dell’art. 240 Tuel, poiché essi costituiscono un mero parametro di valutazione della corretta esecuzione dell’incarico e, quindi, anche della gravità dell’inadempienza (ove diversa da quella tipizzata dall’art. 235, già valutata grave dal legislatore) che giustifica la revoca. In altri termini, la revoca deve sempre fondarsi sull’inadempienza ai compiti demandati ai revisori dall’art. 239, la cui gravità deve essere accertata e motivata con riguardo al quantum di scostamento dal parametro della diligenza esigibile ai sensi dell’art. 240.

L’indipendenza dei revisori dei conti si esprime nell’integrità e nell’obiettività, la prima garantita dall’alta qualificazione dei soggetti chiamati, la seconda dalla più assoluta imparzialità dell’azione del revisore medesimo. Tale principio è ribadito dall’art. 38 della Direttiva 2006/43/CE Dir. 17/05/2006, n. 2006/43/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 17 maggio 2006, secondo cui gli Stati membri devono assicurare che la revoca e le dimissioni dei revisori legali o delle imprese di revisione contabile possa avvenire solo per giusta causa e non per divergenze di opinione in merito ai contenuti delle determinazioni da prendere.

La collaborazione con l’organo consiliare ai sensi dell’art 239 comma 1 lett a) Tuel si esplica, in concreto, attraverso pareri, rilievi, osservazioni e proposte finalizzate a conseguire una migliore efficienza, produttività ed economicità della gestione.

Le funzioni del Segretario generale

Consiglio di Stato, sez. II, 13 maggio 2024, n. 4278

Segretariato generale – Fondamento – Attribuzioni – Potere sostitutivo – Ratio – Potere di annullamento d’ufficio – Accertamento di conformità opere edilizie – Funzioni di coordinamento dei dirigenti comunali – Potere di avocazione – Abuso edilizio e diritti dei comproprietari – Clausola di salvaguardia dei diritti dei terzi – Istanza in sanatoria – Legittimazione

Il fondamento della legittimazione del Segretario Generale è contenuto nelle disposizioni ordinamentali, che ne consentono il coinvolgimento in attività tipicamente gestionali, quali quelle di cui all’art. 99 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 e segnatamente il comma 4, che ne permette la nomina anche a direttore generale.

Al Segretario generale di regola è attribuito il ruolo di responsabile della prevenzione della corruzione e di responsabile della trasparenza (l. 6 novembre 2012, n. 190, nonché d.lgs. 14 marzo del 2013, n. 33); egli può essere nominato direttore generale (art. 97, comma 4, lettera e), del d.lgs. n. 267/2000, che rinvia all’art. 108, comma 4, del medesimo Testo unico); possono essergli attribuite responsabilità di servizi (art. 97, comma 4, lettera d), del T.u.e.), particolarmente nei Comuni di piccole dimensioni, ove non vi è personale idoneo ad assumere compiti dirigenziali.

La attuale funzione del Segretario generale si discosta radicalmente da quella originaria di mera certificazione, di verbalizzazione, di rogito dei contratti dell’ente, nonché di autenticazione delle scritture private e degli atti unilaterali, sempre nell’interesse dell’ente stesso, essendo egli chiamato a svolgere sempre più pregnanti funzioni di controllo di legittimità degli atti dell’ente e più in generale di legalità e di attuazione degli indirizzi politico–amministrativi dei suoi organi: del resto, emblematica in tal senso è la formulazione “aperta” dell’elencazione dei compiti che possono essergli affidati, così che la sua funzione concreta è in certo qual modo anche modellata sulle specifiche esigenze del Comune, disponendo la norma che egli eserciti ogni altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti o conferitagli dal sindaco (art. 97, comma 4, lettera d), del d.lgs. n. 267 del 2000).

Ma, a ciò, non può logicamente e giuridicamente conseguire una sorta di competenza generale su tutte le attività gestionali dell’ente ed un connesso e conseguente altrettanto generale e generalizzato potere di firma in luogo dei dirigenti comunali, che si porrebbe del resto in insanabile contrasto con l’autonomia di questi ultimi e con la necessaria valorizzazione delle loro relative competenze finalizzate, com’è intuibile, al miglior funzionamento possibile della struttura burocratica.

Né nella prospettiva di una competenza generale su tutte le attività dell’ente, può invocarsi l’esercizio da parte del Segretario Generale del potere sostitutivo, perché anche quest’ultimo non si sottrae ai principi di legalità e tipicità dell’azione amministrativa (con la conseguenza che esso sussiste e può essere concretamente esercitato solo se espressamente previsto e nei limiti e con le forme di tale previsione). Quanto detto a maggior ragione laddove l’Amministrazione pretenda di utilizzarlo in deroga alla regola generale che individua nel soggetto che ha la competenza ad adottare un atto l’organo preposto a rivalutarne la legittimità (principio del contrarius actus). L’immanenza dei poteri di annullamento d’ufficio alla funzione di amministrazione attiva cui accede, posto alla base del principio de quo, è tale per cui in caso di trasferimento della competenza da un’autorità ad un’altra, si trasferisce anche il potere di annullamento d’ufficio.

Nei Comuni, in assenza di una diversa indicazione, ovvero, sulla base delle più recenti modifiche, della individuazione di un apposito ufficio, il relativo compito ricade sul Segretario Generale. Ma ciò non lo esonera dal rispetto delle regole generali che sovraintendono all’esercizio del relativo potere.

In linea generale, la disciplina dei poteri sostitutivi nasce con l’apprezzabile intento di disincentivare il contenzioso avverso l’inadempimento della pubblica amministrazione a fronte dell’istanza di un privato.

Affinché possa configurarsi un inadempimento della p.a., tale cioè da legittimare l’attivazione del potere sostitutivo, occorre che una norma, ovvero più generiche esigenze di giustizia sostanziale, impongano l’adozione di un provvedimento espresso, in ossequio alla correttezza e buona fede che deve ispirare la condotta pubblica in rapporto alla quale il privato vanta una legittima e qualificata aspettativa di una legittima pronuncia.

Il regime dell’accertamento di conformità delle opere realizzate in assenza della segnalazione certificata di inizio attività o in difformità dalla stessa è oggetto di disciplina autonoma e distinta dal paradigma generale della sanatoria ordinaria declinato all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001. Essa trova infatti riscontro nel successivo art. 37 che, pur prevedendo egualmente il requisito della c.d. doppia conformità (l’intervento realizzato, cioè, deve risultare conforme tanto alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della sua realizzazione, quanto a quella vigente alla presentazione della domanda), si presenta alquanto lacunoso con riferimento al procedimento vero e proprio. A ben guardare infatti esso assorbe il rilascio del titolo – recte, l’avallo postumo all’intervento, vuoi che sia stato oggetto di apposita istanza, vuoi che quest’ultima si sia concretizzata nella presentazione di una nuova s.c.i.a., in sanatoria, appunto – nell’irrogazione di una sanzione pecuniaria il cui valore è stabilito dal responsabile del procedimento in una somma comunque non inferiore a euro 516. Proprio in ragione della condivisione con l’istituto della fiscalizzazione del contenuto di monetizzazione dell’illecito parte della dottrina ha ricondotto a ridetto modello anche la fattispecie di cui all’art. 37 del T.u.e., che peraltro si diversifica dalle ipotesi tipicamente ascritte al medesimo (artt. 33 e 34 del d.P.R. n. 380/2001) per l’effetto sanante del pagamento della sanzione.

Del tutto legittimamente l’interessato può rivolgersi al Segretario Comunale dell’ente a fronte dell’inerzia dell’ufficio competente; analoga possibilità non è invece riconosciuta ai controinteressati, cui il comma 9-ter dell’art. 2 della l. n. 241 del 1990, sia in ragione della sua formulazione letterale, sia avuto riguardo alla sistematica della norma, non fa riferimento, avendo la norma introdotto un rimedio aggiuntivo e deflattivo del contenzioso a beneficio del richiedente il provvedimento espresso con cui deve concludersi il procedimento che «consegua obbligatoriamente ad un’istanza» (art. 2, comma 1).

L’esercizio del potere sostitutivo, per come declinato nell’art. 2, comma 9-ter della l. n. 241 del 1990, non si concretizza nell’adozione dell’atto direttamente da parte dell’organo di vertice individuato dall’Amministrazione, ma implica la conclusione del procedimento entro un termine pari alla metà di quello originariamente previsto «o attraverso le strutture competenti o con la nomina di un commissario ad acta». Le due modalità sono tra loro alternative e la norma lascia al soggetto titolare la discrezionalità della scelta, ma non gli consente di agire in prima persona. Nel caso poi in cui anche il titolare del potere sostitutivo non risponda nei termini di legge, non resta all’interessato che la tutela giurisdizionale contro il silenzio serbato dall’Amministrazione.

Il fatto che l’esercizio del potere sostitutivo si risolve comunque nel coinvolgimento delle strutture competenti ovvero nell’individuazione di un soggetto terzo (il commissario ad acta) risponde all’evidente esigenza di utilizzare le specificità esperienziali delle stesse ovvero di individuarne all’esterno dell’ente: ciò trova conferma anche nei contenuti della già richiamata novella attuata con il d.l. n. 77 del 2021. Pur essendo infatti stato superato il tradizionale modello basato esclusivamente sulla gerarchia a vantaggio di uno schema che vede nella centralità delle scelte organizzative lo strumento principale di concreta attuazione di qualsiasi disegno di riforma, l’ unità organizzativa, cui è possibile riferirsi in alternativa al soggetto singolo, finanche se creata ad hoc, non può in ogni caso esercitare direttamente l’attività gestionale, ma deve egualmente avvalersi di strutture competenti o del commissario ad acta, cui casomai, vista la configurazione come articolazione dedicata nell’organigramma, sarà in grado di fornire tutto il supporto operativo necessario allo scopo.

L’art. 17, comma 45, della l. n. 127 del 1997, ora confluito nell’art. 136 del d.lgs. n. 267/2000, con riferimento ai provvedimenti che Comuni e Province sono tenuti ad adottare, prevede che se essi, malgrado l’invito «a provvedere entro congruo termine, ritardino o omettano di compiere atti obbligatori per legge, si provvede a mezzo di commissario ad acta nominato dal difensore civico regionale, ove costituito, ovvero dal comitato regionale di controllo», il quale «provvede entro sessanta giorni dal conferimento dell’incarico».

La più recente contrattazione nazionale dell’Area Dirigenza, nello specificare cosa debba intendersi per funzioni di coordinamento dei dirigenti comunali svolte dal Segretario Generale ove il Sindaco o il Presidente della Provincia non abbiano nominato il direttore generale, vi ha incluso anche il potere di avocazione degli atti in caso di inadempienza da parte del soggetto deputato ad esercitarlo (art. 101 del CCNL dell’area della dirigenza del comparto Funzioni Locali, sottoscritto il 17 dicembre 2020. Essa non può che costituire una mera declinazione delle regole di esercizio del potere sostitutivo di cui al più volte ricordato art. 2 della l. n. 24171990.

L’abusività di un’opera non può essere in alcun modo ricondotta all’assenso o dissenso degli altri comproprietari, in quanto essa dipende esclusivamente dal rispetto delle regole sulla edificabilità dei suoli e di buon governo del territorio. I diritti dei comproprietari, infatti, ivi inclusi quelli connessi all’eventuale travalicamento dei limiti imposti a ogni comunista dall’art. 1102 cod. civ., non sono giammai pregiudicati dal rilascio del titolo edilizio (che è sempre legittimamente rilasciato, senza neanche bisogno di esplicitazione, con salvezza dei diritti dei terzi). Essi, cioè, sono tutelabili (esclusivamente) mediante azioni civili innanzi al giudice ordinario.

 Tale ricorrente affermazione, pur condivisibile in punto di diritto, va conciliata proprio con l’esatta accezione da attribuire alla previsione della clausola di salvaguardia dei diritti dei terzi. Se per regola essa esime l’Amministrazione procedente da qualsivoglia approfondimento circa l’effettiva titolarità della pienezza del diritto proprietario, sicché l’emergenza di future problematiche in tal senso non incidono sulla legittimità dell’atto adottato, la stessa non consente tuttavia di prescinderne laddove la carenza di legittimazione piena emerga per tabulas e non richieda né indagini suppletive, né, men che meno, prese di posizione a favore dell’una o dell’altra tesi di parte. Il comproprietario, infatti, diviene “terzo” solo nel momento in cui se ne è ignorata la presenza, mentre configura una sorta di litisconsorte necessario in caso di oggettiva conoscenza della contitolarità di un bene e del contrasto tra aventi diritto, a maggior ragione ove espresso, come nel caso di specie, sotto forma di denuncia dell’abuso dell’uno a carico dell’altro. In tali ipotesi, cioè, si ritiene che l’ente debba compiere quel minimo di indagini necessarie per verificare se le contestazioni sono fondate sul piano quanto meno della legittimità formale e denegare il rilascio del titolo se il richiedente non sia in grado di fornire elementi seri a fondamento dell’esclusività, in fatto o in diritto, della sua posizione.

La maggiore ampiezza di soggetti legittimati alla richiesta di una sanatoria, in quanto anche potenziale causa estintiva del reato edilizio, ha come contropartita la valorizzazione del potere di “sbarramento” da parte del comproprietario, diversamente costretto a subire non solo un cambiamento dello stato dei luoghi realizzato (illegittimamente) a sua insaputa, ma pure il suo consolidarsi, a tutela (anche) della incensuratezza di controparte. Considerazione valida anche per l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, non potendosi dare altro rilievo alla diversa terminologia utilizzata dal legislatore ed enfatizzata dall’appellante («proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’area interessati dagli interventi», in luogo di «proprietario o responsabile dell’abuso» utilizzata nell’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001).

Aiuti di Stato e deroghe ai divieti

Consiglio di Stato, sez. IV, 7 maggio 2024, n. 4112

Aiuti di Stato – Mercato interno – Incompatibilità – Deroghe – Interpretazione restrittiva – Calamità naturali

Il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea sancisce un generale principio di incompatibilità degli aiuti di Stato con il mercato interno (art. 107, par. 1, TFUE). Tale divieto, tuttavia, ammette delle deroghe rispetto ad alcune categorie di aiuti che sono ritenuti compatibili (art. 107, par. 2, TFUE), o possono essere dichiarati compatibili (art. 107, par. 3, TFUE) con il mercato interno. Con specifico riferimento alla categoria di aiuti “destinati a ovviare ai danni arrecati dalle calamità naturali oppure da altri eventi eccezionali” (art. 107, par. 2, let. b), TFUE), trattandosi di una deroga al principio generale, devono formare oggetto di un’interpretazione restrittiva.

Deve escludersi che possano essere ritenuti compatibili con il mercato interno tutti gli aiuti pubblici concessi a seguito di una qualsiasi calamità naturale, riconosciuta formalmente da una qualsiasi autorità pubblica.

Per eventi calamitosi di origine naturale, devono intendersi i terremoti, le frane, le inondazioni, in particolare le inondazioni provocate da straripamenti di fiumi o laghi, le valanghe, le trombe d’aria, gli uragani, le eruzioni vulcaniche e gli incendi boschivi di origine naturale; invece, i danni causati da condizioni meteorologiche avverse quali gelo, grandine, ghiaccio, pioggia o siccità non dovrebbero essere considerati una calamità naturale ai sensi dell’articolo 107, paragrafo 2, lettera b), del Trattato.

Così come non tutti gli eventi calamitosi sono idonei a giustificare una deroga al divieto di aiuti di Stato ai sensi dell’art. 107, par. 2, let. b), TFUE, allo stesso modo non tutte le autorità pubbliche competenti, nel diritto interno, a riconoscere il carattere lato sensu calamitoso di un evento, hanno altresì il potere di disporre la concessione di aiuti pubblici in deroga al divieto di cui all’art. 107 TFUE.

Consigliere comunale e decadenza dalla carica

Tar Campania, Napoli, sez. I, 9 maggio 2024, n. 3021

Consiglio comunale – Decadenza dalla carica di consigliere comunale – Natura giuridica – Cause – Astensionismo ingiustificato e astensionismo deliberato e preannunciato – Protesta politica – Termini per contestare i presupposti per la decadenza dalla carica di consigliere comunale

In via generale, la decadenza dalla carica di consigliere comunale costituisce una limitazione all’esercizio di un munus publicum, sicché la valutazione delle circostanze cui è conseguente la decadenza vanno interpretate restrittivamente.

Il carattere sanzionatorio del provvedimento, destinato ad incidere su una carica elettiva, impone la massima attenzione agli aspetti garantistici della procedura, anche per evitare un uso distorto dell’istituto come strumento di discriminazione nei confronti delle minoranze. Sotto distinto profilo, l’istituto della decadenza è posto a presidio di una ordinata e proficua attività dell’organo collegiale e tende a sanzionare il comportamento del consigliere che, una volta eletto, si disinteressi del mandato conferitogli dai cittadini.

L’elettorato passivo trova tutela a livello costituzionale (art. 51 Cost.): le ragioni che, in relazione al modo di esercizio della carica, possano comportare decadenza devono essere obiettivamente gravi nella loro assenza o inconferenza di giustificazione, ovvero nella loro genericità e carenza di prova, tale da impedire qualsiasi accertamento sulla fondatezza, serietà e rilevanza.

L’astensionismo ingiustificato di un consigliere comunale costituisce legittima causa di decadenza sul presupposto del disinteresse e della negligenza che l’amministratore mostra nell’adempiere il proprio mandato, con ciò generando non solo difficoltà di funzionamento dell’organo collegiale cui appartiene ma violando, altresì, l’impegno assunto con il corpo elettorale che lo ha eletto e che ripone in lui la dovuta fiducia politico–amministrativa.

A differenza dell’astensionismo deliberato e preannunciato che può considerarsi uno strumento di lotta politico-amministrativa a disposizione delle forze di opposizione per far valere il proprio dissenso a fronte di atteggiamenti ritenuti non partecipativi, dialettici e democratici delle forze di maggioranza, quello non preventivamente comunicato e addotto solo successivamente – e su richiesta di giustificazione per la mancata partecipazione ai lavori consiliari – costituisce legittima causa di decadenza, generando difficoltà di funzionamento dell’organo collegiale cui appartiene il consigliere comunale e violando l’impegno assunto con il corpo elettorale che lo ha eletto e che ripone in lui la dovuta fiducia politico–amministrativa.

La mera protesta politica, dichiarata a posteriori, non è idonea a costituire valida giustificazione delle assenze dalle sedute consiliari, in quanto, a tale scopo, occorre che il comportamento ed il significato della protesa che il consigliere comunale intende annettervi siano in qualche modo esternati al Consiglio o resi pubblici in concomitanza alla estrema manifestazione di dissenso, di cui la diserzione delle sedute costituisce espressione.

Incarichi dirigenziali e motivazione

Consiglio di Stato, sez. V, 23 aprile 2024, n. 3717

Attribuzione di qualifiche dirigenziali – Incarichi a contratto – Onere motivazionale – Principi dell’azione amministrativa

Con riferimento alla procedura di cui all’art. 110 comma 1 del TUEL, v’è un obbligo di specifica motivazione della scelta, che comporta l’indicazione dei presupposti per l’attribuzione di incarichi dirigenziali a soggetti esterni, fra cui il conferimento a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell’Amministrazione. Ciò è espressione del principio di trasparenza dell’azione amministrativa e, quindi, dei principi di imparzialità e buon andamento della Amministrazione stessa (art. 97 Cost.), oltre che di correttezza e buona fede nella scelta del contraente.

Crocifissi e poteri di ordinanza sindacale

Consiglio di Stato, sez. II, 18 marzo 2024, n. 2567

Ordinanze contingibili e urgenti – Presupposti – Legittimità – Affissione crocifisso in edifici pubblici – Difetto di attribuzione

È illegittimo per difetto di attribuzione l’ordinanza contingibile e urgente adottata da un sindaco che ordina l’immediata affissione del crocifisso in tutti gli edifici pubblici con l’urgenza di “preservare le attuali tradizioni, ovvero mantenere negli edifici pubblici […] la presenza del crocifisso quale simbolo fondamentale dei valori civili e culturali del nostro paese”, non ravvisandosi alcuno dei presupposti che giustificano l’adozione di tale tipologia di provvedimento.

Incarico di Comandante dei Vigili Urbani

Consiglio di Stato, sez. V, 15 marzo 2024, n. 2518

Pubblico impiego – Atti di macro-organizzazione – Atto di conferimento dell’incarico di Comandante dei Vigili Urbani – Soggetti legittimati – Legge regionale Abruzzo n. 42/2013 – Ratio – Direzione uffici comunali ordinari – Divieto di inversione

L’atto di conferimento dell’incarico ad interim di Comandante dei Vigili Urbani è immediatamente lesivo trattandosi di provvedimento di riorganizzazione del settore che incide anche sui compiti che il medesimo dovrà svolgere. Tale atto rientra nella categoria degli atti di macro-organizzazione, in quanto si verte pacificamente su linee fondamentali della organizzazione e del funzionamento degli uffici.

La funzione di Comandante dei Vigili Urbani può essere assunta soltanto da personale dei “ruoli” della stessa polizia locale. Ciò è espressamente previsto dalla legge regionale Abruzzo n. 42 del 2013. La ratio di tale scelta legislativa risiede nel fatto che il personale dei ruoli della PM viene originariamente reclutato con certi criteri e secondo determinati profili professionali e formativi, tali da poter svolgere funzioni di polizia giudiziaria, di sicurezza pubblica e stradale (mansioni di una certa delicatezza che non sono abilitati a svolgere funzionari e dirigenti di altri settori “ordinari” dell’ente); del resto, in caso di assenza o impedimento del comandante, possono sopperire solo il vice comandante oppure, in assenza anche di quest’ultimo, il personale comunque del Corpo o Servizio di polizia locale (cfr. art. 5, comma 5, della citata legge regionale n. 42 del 2013).

La legge n. 208 del 2015, comma 221, prevede, in particolare, al secondo periodo che: “Allo scopo di garantire la maggior flessibilità della figura dirigenziale nonché il corretto funzionamento degli uffici, il conferimento degli incarichi dirigenziali può essere attribuito senza alcun vincolo di esclusività anche ai dirigenti dell’avvocatura civica e della polizia municipale”. Dunque, i dirigenti della PM e dell’avvocatura comunale possono eccezionalmente assumere la direzione di uffici ordinari dell’ente ma non anche il contrario (ossia dirigenti esterni alla PM non possono diventare comandanti della stessa); depone in tal senso, innanzitutto, la formulazione letterale della disposizione secondo cui può essere attribuito il “conferimento degli incarichi dirigenziali” ma non anche il ruolo di avvocato dell’ente oppure di comandante della polizia locale. Sul piano logico e sistematico, la ragione giustificatrice alla base di tale “divieto di inversione” (dirigenti di struttura oppure anche della avvocatura che assumano incarico di comandante della polizia locale) risiede nella constatazione che i medesimi – al netto di ogni caso particolare – non sono in via generale stati formati e reclutati per assumere e svolgere determinate specifiche funzioni di polizia giudiziaria, di sicurezza pubblica e stradale.

Farmacie rurali e libertà di trasferimento

Consiglio di Stato, sez. III, 13 marzo 2024, n. 2450

Farmacie – Farmacie rurali – Libertà di trasferimento del farmacista all’interno della zona di competenza – Autorizzazione

Tali considerazioni valgono a maggior ragione per i trasferimenti delle farmacie rurali, che sono destinate a far fronte a particolari esigenze dell’assistenza farmaceutica locale, che prescinde dall’ordinario criterio della popolazione.

Impianti di telefonia mobile e criteri localizzativi

Tar Valle d’Aosta, sez. Unica, 23 febbraio 2024, n. 15

Installazione di impianti di telefonia mobile – Criteri localizzativi – Potere regolamentare dei Comuni – Limiti alla localizzazione

Alle Regioni e ai Comuni è consentito individuare criteri localizzativi degli impianti di telefonia mobile (anche espressi sotto forma di divieto) quali ad esempio il divieto di collocare antenne su specifici edifici (ospedali, case di cura ecc.), mentre non è loro consentito introdurre limitazioni alla localizzazione, consistenti in criteri distanziali generici ed eterogenei (prescrizione di distanze minime, da rispettare nell’installazione degli impianti, dal perimetro esterno di edifici destinati ad abitazioni, a luoghi di lavoro o ad attività diverse da quelle specificamente connesse all’esercizio degli impianti stessi, di ospedali, case di cura e di riposo, edifici adibiti al culto, scuole ed asili nido, nonché di immobili vincolati ai sensi della legislazione sui beni storico-artistici o individuati come edifici di pregio storico-architettonico, di parchi pubblici, parchi gioco, aree verdi attrezzate ed impianti sportivi).

La scelta di individuare un’area ove collocare gli impianti in base al criterio della massima distanza possibile dal centro abitato non può ritenersi condivisibile, costituendo un limite alla localizzazione (non consentito) e non un criterio di localizzazione (consentito).

La potestà attribuita all’amministrazione comunale di individuare aree dove collocare gli impianti è condizionata dal fatto che l’esercizio di tale facoltà deve essere rivolto alla realizzazione di una rete completa di infrastrutture di telecomunicazioni, tale da non pregiudicare l’interesse nazionale alla copertura del territorio e all’efficiente distribuzione del servizio.

Il legislatore statale, con l’art. 38, comma 6, del decreto legge n. 76 del 2020, convertito in legge n. 120 del 2020, ha modificato l’art. 8 della legge n. 36 del 2001, autorizzando i Comuni all’adozione di regolamenti riferibili a siti sensibili individuati in modo specifico, con esclusione della possibilità di introdurre limitazioni alla localizzazione in aree generalizzate del territorio di stazioni radio base per reti di comunicazione elettroniche di qualsiasi tipologia e in ogni caso di incidere, anche in via indiretta, mediante provvedimenti contingibili urgenti, sui limiti di esposizione a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici, sui valori di attenzione e sugli obiettivi di qualità, riservate allo Stato ai sensi dell’articolo 4.

Ai sensi del d. lgs. n. 259 del 2003, le infrastrutture di telefonia mobile sono considerate opere di “pubblica utilità” e “sono assimilate ad ogni effetto alle opere di urbanizzazione primaria” (artt. 86, comma 3, e 90, comma 1), potendo essere collocate in qualsivoglia zona del territorio comunale e a prescindere dalla sua destinazione funzionale, in modo che sia realizzato un servizio capillare.